Nel giorno della commemorazione dell'Olocausto, ha fatto notizia la visita del presidente Obama all'ambasciata israeliana a Washington. Obama ha riconosciuto l'avanzata globale dell'antisemitismo e ha dichiarato solenne: «siamo tutti ebrei». Una dichiarazione forte, importante, che di solito si pronuncia dopo una carneficina; come fummo tutti americani dopo l'11 settembre, o tutti francesi dopo l'attentato a Charlie Hebdo.
Peccato che alle dichiarazioni di principio, seguano fatti che vadano in direzione opposta. Due episodi sono rivelatori dell'atteggiamento ipocrita delle autorità, pronte a compiangere gli ebrei morti, e al contempo ad ignorare la minaccia arrecata a quelli vivi.
Ieri mattina è stato rivelato un programma segreto di monitoraggio dell'attività dei droni israeliani da parte dei servizi segreti britannici ed americani. L'intrusione non autorizzata nell'architettura informatica degli aerei senza pilota di Gerusalemme, veniva condotta dalle basi militari a Cipro, e puntava a conoscere anzitempo le operazioni militari a Gaza, i propositi di attacco all'Iran, e a sorvegliare una tecnologia abbastanza raffinata da essere esportata nel resto del mondo.
Il governo di Gerusalemme si è dichiarato «amareggiato ma non sorpreso». Sono cose che si fanno, fra governi amici. Il monitoraggio delle attività militari di uno stato sovrano è sempre esistito, indigna ma non costituisce uno scoop.
Ciò che davvero amareggia, è l'atteggiamento quantomeno ambiguo manifestato nei confronti delle produzioni israeliane nel West Bank conteso. Una misura coercitiva, recentemente adottata nell'Unione Europea, anche se con significative defezioni, che ha suscitato le giuste proteste israeliane, e che adesso si estende anche negli Stati Uniti. I cui uffici doganali hanno emesso una prescrizione con cui si diffida gli importatori locali dall'etichettare "Made in Israel" le merci prodotte ad est della Linea Verde; pena l'elevazione di sanzioni.
«Non è nulla di nuovo, si tratta della conferma di linee guida già fissate nel 1995, all'indomani degli Accordi di Oslo», si sono difesi a Washington. Stupore e imbarazzo a Gerusalemme, per un provvedimento che in realtà riveste un contenuto tutt'altro che tecnico. Come infatti ha rilevato il blog Elder of Ziyon, il target delle linee guida adottate nel 1995 erano le produzioni arabe, non quelle israeliane: poiché gli Accordi di Oslo del 1993 e i successivi Accordi Interinali del 1995 generavano un embrione statuale nel West Bank, con la possibilità da parte di Ramallah di fissare tariffe e norme doganali, e in generale di prevedere una prima forma di imposizione fiscale; era ritenuto opportuno prevedere la possibilità che le produzioni palestinesi realizzate nel West Bank, o a Gaza, e importate negli Stati Uniti, fossero marchiate come tali.
Evidente a questo punto la volontà di accerchiare Gerusalemme, costringendola ad una resa diplomatica nei confronti dei palestinesi. La strategia, partita da Bruxelles, e rimbalzata da Washington, ha trovato conferma ieri sera in una scomposta dichiarazione del ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, il quale ha manifestato la volontà di ospitare una conferenza con la quale indurre israeliani e palestinesi a pervenire ad una definitiva soluzione del conflitto, mediante previsione di un non meglio definito "stato palestinese", al fianco di quello israeliano. La pena prevista per un mancato accordo in tal senso, risulta però ancora una volta a senso unico: il riconoscimento unilaterale della Palestina. Pazienza se gli espliciti inviti in tal senso formulati negli anni dal governo di Gerusalemme siano stati sgarbatamente rispediti al mittente da Ramallah.
Con amici di questo tipo, chi avverte davvero il bisogno di circondarsi di nemici?
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