Non sappiamo dove questa foto è stata scattata - apparentemente in Medio Oriente, ma chi può dirlo? Non sappiamo cosa renda quella bandiera così tesa, in un luogo talmente angusto che difficilmente il vento si fa sentire così imponente (probabilmente fuori scena troneggia un ventilatore nascosto - da set fotografico - che impone al vessillo una posizione imperiosa). Ma ammiriamo la posa plastica del modello, degno allievo dell'Actors' Studio, e apparentemente intento a scagliare un sasso contro l'odiato nemico occupatore-usurpatore-accerchiatore-(metticiquaquellochetipare).
Deploriamo la cattiva abitudine di non stendere il red carpet davanti a questo figurante, a beneficio della stampa accorsa su chiamata per immortalarlo. Stigmatizziamo la mancata dotazione di caschetto o copricapo di ordinanza da parte della seconda fotografa da sinistra; esposta al rischio di rappresaglia da parte del perfido sionista. E ce la prendiamo con le norme architettoniche, che in questo luogo evidentemente impediscono di arricchire le pareti sceniche con frasi memorabili e ad effetto del tipo "End Israeli occupation".
Certo quest'anno per il premio della "Foto dell'anno da luoghi di guerra" ci sarà una bella lotta: sarà condiviso ex aequo fra molti fotografi. Troppa, la sproporzione fra reporter, da un alto, e "resistenti", dall'altro: più palestinisti, occorrono, next time. A patto che prima di andare in scena, lascino a casa il gonfio portafogli (o un ingombrante palmare di ultima generazione).
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