Dopo un mese e mezzo, la guerra di Gaza incomincia a prendere una buona piega, con clamorose defezioni in campo palestinese, e un ottimo lavoro dell'intelligence israeliana, che stanno facendo pendere la bilancia a favore di Gerusalemme. Colpiti tre, se non quattro importanti esponenti del vertice militare dell'organizzazione terroristica, si percepisce decisamente la sensazione di panico da parte di Hamas. Incolmabili le distanze fra le pretese delle due fazioni: Khaled Meshal chiedeva a gran voce la rimozione del blocco parziale marittimo e terrestre, che impedisce che nella Striscia entri di tutto, incluse armi e munizioni; Netanyahu chiedeva la smilitarizzazione completa di Gaza.
Impossibile conciliare le due cogenti richieste da parte di chi ha tentato di pervenire ad una tregua, fra un cessate il fuoco e l'altro. Ma l'evoluzione degli ultimi giorni fornisce qualche garanzia in più circa una conclusione fisiologica e non abortita di questo conflitto.
La conclusione di questo conflitto, auspicabilmente con un vincitore e uno sconfitto dichiarati - soltanto così si può "vincere la pace" - porrà fine all'ennesima prova di doppiopesismo che in Medio Oriente è sempre di casa. L'evidenza di uno standard valutativo peculiare, quando si ha a che fare con Israele, è stata esaltata dal genocidio commesso nelle ultime settimane dai miliziani dell'ISIS, che non si risparmiano quando si tratta di amputare il collo di chi non si è piegato alla conversione. Unanime la condanna del mondo civile: Stati Uniti, ONU, Europa e persino il Vaticano, hanno condannato senza remore la carneficina barbarica a cui stiamo assistendo in Iraq.
Perché allora lo stesso criterio di valutazione non è adottato nei confronti di Hamas? dalla Striscia di Gaza partono ogni giorno attacchi nei confronti di milioni di cittadini israeliani inermi; l'organizzazione terroristica ha affermato a chiare lettere nel suo statuto di voler uccidere tutti gli ebrei a portata di tiro, e non ha esitato nell'utilizzare donne e bambini, come macabro scudo umano che ponesse loro al riparo dalle operazioni militari israeliane. La popolazione palestinese è ogni giorno vessata, intimidita, minacciata dagli integralisti islamici. A Gaza le libertà civili sono negate, libere elezioni non si tengono da anni, gli omosessuali sono impiccati e le minoranze religiose residue vivono nel terrore.
Grottesco come il mondo civile chieda a Gerusalemme di deporre le armi, rinunciando a difendere la popolazione civile dagli attacchi di Hamas; e allo stesso tempo chieda che l'ISIS sia messa in condizioni di non nuocere alla popolazione civile di Iraq e Siria. Dopotutto, entrambe le formazioni islamiche sono sunnite, sebbene Hamas sia sostenuta finaziariamente dall'Iran sciita, e l'ISIS dal Qatar sunnita.
La scorsa settimana il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha adottato all'unanimità una risoluzione che condanna l'ISIS per il «diffuso e sistamatico abuso dei diritti umani»; ma non ha trovato il tempo e il modo di emettere analoga risoluzione di condanna per il triplice crimine di guerra di Hamas: che attacca deliberatamente i civili, sferra i suoi attacchi da aree abitate, e usa i palestinesi come scudo umano. Non c'è da aspettarsi che nessuno faccia presente che la Convenzione di Ginevra assegna la responsabilità per le sorti degli scudi umani, interamente su chi se ne serve.
Esempi di doppiopesismo abbondano. Nelle ultime ore i giornali si sono giustamente soffermati sull'eliminazione di pericolosi capi del terrorismo palestinese da parte dell'aviazione israeliana; senza però enfatizzare in alcun modo l'esecuzione sommaria, da parte di Hamas, di concittadini accusati di "collaborazione con il nemico sionista". Il sangue degli ebrei non vale molto, agli occhi dei commentatori occidentali; lo sappiamo. Ma si apprende in questi giorni come anche il sangue di palestinesi, uccisi da altri palestinesi, sia a buon mercato.
In questo trattamento differenziato, una pesante responsabilità ricade sulla stampa. Che sulla questione israelo-palestinese commette grossolani errori; oggi, come in passato. Nulla di nuovo.
Alcuni giorni addietro l'associazione della stampa straniera, mai tenera con Israele, per usare un eufemismo, ha denunciato le pressioni e le intimidazioni subite da Hamas a Gaza. Migliaia di missili e razzi sono stati sparati dalla Striscia, eppure giornalisti e reporter non hanno mai documentato fotograficamente una che sia una piattaforma di lancio. E sì che, per loro stessa ammissione, i lanci partivano dai pressi degli alberghi dove hanno soggiornato.
Alcuni hanno ammesso di aver lavorato metaforicamente con i fucili puntati contro, soltanto dopo essere usciti dalla Striscia; altri hanno rovesciato le tesi ufficiali ("secondo fonti palestinesi"), che frettolosamente hanno addebitato ad Israele le morti di civili, soltanto dopo aver guadagnato una posizione più sicura; quando ormai la diffamazione era compiuta. «Il coraggio uno non se lo può dare», ammoniva sconsolato Don Abbondio...
Certo. Ma ci sono due categorie di giornalisti (tre, se includiamo quelli con la schiena dritta): chi subisce le intimidazioni, salvo denunciarle in un secondo momento (spetta al lettore compiere una generosa tara); e chi parteggia apertamente per il nemico. Esempi anche in questo caso non ne mancano: BBC Watch e CiF Watch sono piene di smascheramenti quotidiani di resoconti viziati da partigianeria, omissioni, astrazioni dal contesto e ricostruzioni fantasiose.
Poi ci sono i giornalisti che divulgano i loro servizi con la kefia, contornati da amorevoli terroristi. È il caso - sorvolando sulle patetiche "attiviste" italiane di stanza a Gaza - di Fares Akram, il più accreditato corrispondente da Gaza per il New York Times (mica l'eco di Bergamo, con il dovuto rispetto). Come giudicare l'equilibrio e l'imparzialità di questo giornalista, le cui corrispondenze sono condivise a migliaia in tutto il mondo, quando, osservando la sua pagina Facebook, si scorge il ritratto di Yasser Arafat, di cui si tessono spudoratamente le lodi?
L'ufficio stampa del governo israeliano precisa che oltre 700 giornalisti provenienti da 40 paesi hanno raggiunto Israele per coprire mediaticamente la guerra contro Hamas; in aggiunta ai 750 già sul luogo. Come si può fronteggiare una descrizione così faziosa, squilibrata e diffamatoria degli eventi? in una moderna riedizione dell'epico scontro fra Davide e Golia, l'informazione alternativa portata avanti da piccoli quanto volenterosi scopritori di canagliesche bufale, deve fronteggiare ogni giorno le menzogne dei vari New York Times, Reuters, CNN, BBC, Guardian; con tutto il contorno di TV e giornali che citano le "fonti ufficiali" senza preoccuparsi di un peraltro semplicissimo fact checking.
Hamas si avvia auspicabilmente a perdere la guerra. Ma potrà sempre contare sulla consolazione amorevole dei media occidentali.
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