Baha Nabata, era un'attivista palestinese di 31 anni. Marito, e padre di due figli. È stato ucciso lunedì sera nel campo profughi di Shuafat, alla periferia di Gerusalemme, raggiunto da una pioggia di proiettili esplosa da sicari dileguatisi poi in sella ad una motocicletta.
La comunità locale piange una persona onesta, seria, e coraggiosa. Perché ha avuto l'ardire di tentare di migliorare le condizioni di vita degli ospiti del discusso campo profughi situato fra la periferia orientale della capitale israeliana, e il West Bank. Meir Margalit, ex consigliere del partito di estrema sinistra Meretz, e collaboratore di Baha Nabata, ha rivelato che l'attivista palestinese temeva per la sua vita, a causa delle numerose minacce subite: era accusato di tradimento, di collaborazionismo con il nemico. La sua colpa consisteva nei contatti che aveva istituito con la municipalità di Gerusalemme, con cui lavorava nel tentativo di risolvere i problemi del campo profughi, migliorando le condizioni di vita dei palestinesi ivi residenti: costruendo strade e via d'accesso, istituendo un pronto intervento sanitario e addestrando la popolazione a fronteggiare un'eventuale incendio, in collaborazione con i vigili del fuoco di Gerusalemme.
Una colpa grave, evidentemente. Perché i palestinesi devono vivere in condizioni disastrose, in luridi campi, senza prospettive di miglioramento, senza possibilità di riscatto; per costituire nelle mani della dirigenza palestinese una reale arma da impiegare cinicamente nei confronti del governo israeliano e della comunità internazionale.
Al tempo stesso, l'assassinio di Nabata costituisce un monito nei confronti di chi valuti di emularne le gesta: non si collabora con Gerusalemme; fosse anche per migliorare l'esistenza dei palestinesi.
Speriamo che l'inchiesta aperta riveli subito le generalità degli assassini. Le testimonianze, a quanto pare, non mancano.
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