lunedì 24 marzo 2014
Da Khartoum a Washington: i "tre no" dei palestinesi
Era il mese di settembre 1967. Israele era uscito trionfante dalla Guerra dei Sei Giorni, scatenatagli contro tre mesi prima da Egitto, Siria e Giordania. Le speranze di Gerusalemme - di nuovo riunita, dopo l'occupazione giordana durata 19 anni - erano di indurre gli stati arabi confinanti ad una pace duratura, riconsegnando i territori conquistati a giugno. Ma le potenze arabe, riunitesi a Khartoum, in Sudan, decretarono un secco no: no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no a trattative con Israele. Era l'inizio di un'intransigenza che non sarebbe stata smantellata dalla successiva Risoluzione ONU n. 242, che delineava una cornice fra arabi e israeliani, prevedendo il ritiro dello stato ebraico DA (si noti l'enfasi sulla preposizione semplice, e non articolata: non DAI territori, ma DA territori; ovvero, da parte dei territori, e non necessariamente dalla loro interezza) territori occupati durante il conflitto, in cambio della cessazione delle ostilità, del riconoscimento reciproco e del mutuo diritto a vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti.
Sono passati 47 anni da Khartoum, Israele ha stretto accordi di pace con Egitto e Giordania, cura amorevolmente nei propri ospedali quei profughi in fuga dalla Siria con cui ufficialmente non intrattiene rapporti diplomatici; ma i palestinesi non rinunciano all'ottuso rifiuto di vivere in pace con lo stato ebraico.
Reduce trionfale dai colloqui a Washington con il presidentello americano, Abu Mazen - unico caso al mondo di capo di Stato detentore di tre cariche (presidente dell'ANP, presidente dell'OLP e presidente del Fatah: neanche il nostro Renzi arriva a tanto, avendo rinunciato alla carica di sindaco di Firenze), delle quali peraltro almeno una scaduta da cinque anni; ha urlato al suo popolo festante di aver messo nel sacco Obama - per cui ci vuole francamente molto poco. Rifiutando di riconoscere Israele come lo stato degli ebrei, rifiutando di accantonare il proposito minaccioso di farvi affluire oltre 5 milioni di palestinesi che giurano di essere tali, nonché discendenti più o meno prossimi dei 30.000 che furono convinti dagli stati arabi confinanti ad abbandonare Israele nel 1948, dove vi sarebbero presto tornati come vincitori; e rifiutandosi infine di sancire la definitiva fine del conflitto fra arabi e palestinesi: che dal 1948 ad oggi ha mietuto 35.000 vittime da parte palestinese. Neanche tante, per la verità: in Siria in soli tre anni sono morte oltre 140.000 persone, quattro volte tanto; e nessuno si indigna seriamente nel resto del mondo.
A questo punto Gerusalemme ha opposto un comprensibile rifiuto a rilasciare l'ultima tranche di criminali palestinesi, detenuti nelle proprie galere, di cui le intese dello scorso luglio prevedevano la definitiva liberazione, in assenza dell'impegno da parte palestinese a proseguire con i negoziati oltre la scadenza prefissata.
Come era facile prevedere alla vigilia, nonostante tutte le possibile concessioni, la dirigenza palestinese non ha alcun interesse a porre fine ad un conflitto pluridecennale. Ha avuto la possibilità di farlo nel 2000, con Arafat; nel 2008, con Abu Mazen, e ogni volta ha opposto un rifiuto, rovesciando il tavolo quando la storica intesa sembra finalmente a portata di mano. Siamo arrivati al 2014, e la storia si ripete. Speriamo in farsa, e non in tragedia.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
C'era da scommetterci:
RispondiEliminaLa Lega Araba (ma a che serve?!?!) «si rifiuta categoricamente di riconoscere Israele come stato degli ebrei». Rispetto al 1947, non è cambiato assolutamente nulla. E dire che da allora i palestinesi potevano avere uno stato; ma agli arabi non interessava.
Il povero Kerry si è caricata la carta Millemiglia, con tutti questi viaggi da e per il Medio Oriente. Inutili: si sapeva dall'inizio che i palestinesi non sono interessati ad avere un loro stato.
Quanta CO2 disseminata inutilmente...