venerdì 28 marzo 2014
I "muri dell'apartheid" di cui non si parla
Da sempre le comunità minacciate da aggressioni esterne si proteggono ereggendo barriere difensive. Nel 1953 il governatore di New Amsterdam, che più tardi avrebbe cambiato nome in New York in onore del duca di York, concluse che si rendeva necessario costruire un muro di legno - alto 3,65 metri e lungo più di 400 metri - che proteggesse i coloni olandesi delle Nuove Olande dalle tribù indigene e dai vicini colonizzatori inglesi. Per ovvie ragioni, la strada che delimitava quella zona fu ribattezzata Wall Street.
Questa sana abitudine non è stata perduta nei secoli successivi, ne' ha quasi mai scatenato ostilità e disapprovazione. Nessuno ha nulla da obiettare nei confronti del muro che separa Stati Uniti e Messico, costruito in funzione anti-immigrazione clandestina; o di quello che protegge l'enclave spagnola di Ceuta nel territorio marocchino. C'é poi il muro che divide Corea del Nord e Corea del Sud, o ancora l'Oman dagli Emirati Arabi. Uno studio pubblicato lo scorso anno, censisce diecine di muri in tutto il mondo, spesso ignoti ai più, o trascurati per il loro scarso appeal politico-ideologico.
E poi c'è la barriera di separazione - muro in senso stretto soltanto per il 6% della sua lunghezza - che separa Israele dal West Bank. Un reticolato lungo alcune centinaia di chilometri, e che ha consentito la riduzione del 99% degli attentati ai danni della popolazione civile israeliana da parte dei terroristi palestinesi. Sebbene questa barriera difensiva crei non pochi comprensibili disagi alla popolazione, è indubbio che diverse morti sono state sventate grazie ad essa: entrare in Israele imbottiti di esplosivo, da far denotare a bordo di un autobus, in un bar, nei pressi di una scuola, non è più così semplice. Il terrorismo deve esplorare nuove vie per condurre il suo messaggio di morte.
Ciò non scoraggia gli anti-israeliani dall'urlare la loro ipocrita indignazione nei confronti di questa estrema ma efficace misura di sicurezza. Ipocrita perché i territori palestinesi sono ora contornati da un nuovo "muro dell'apartheid", come amano definirlo quando a costruirlo è stato Israele; ma al confine fra la Striscia di Gaza e l'Egitto. L'amministrazione di Al Sisi difatti ha disposto la costruzione di una struttura in cemento armato nel Sinai, non molto lontano da Rafah, e che ingloberà ben dieci punti di accesso. Non solo: il muro occuperà il territorio dell'enclave palestinese, in lungo e in largo, e impedirà il libero transito di persone e cose.
Forse la Croce Rossa denuncerà l'occupazione? forse le Nazioni Unite convocheranno il consiglio di sicurezza per protestare? forse l'Unione Europea dichiarerà illegale la costruzione? forse Amnesty International o alte ONG denunceranno il regime di apartheid che l'Egitto produrrà ai danni dei poveri palestinesi? è presto per dirlo, ma dopo alcune settimane di permanenza di questa barriera, il silenzio internazionale è assordante ed eloquente.
La morale è che quando è Israele a difendersi, è una inaccettabile violazione dei diritti umani. Quando analoghi provvedimenti sono intrapresi dalla Giordania, o dall'Egitto, omertà e ipocrisia calano su quello che rimane un problema interno al mondo arabo.
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