di Emanuele Ottolenghi*
L'ennesimo tentativo di Obama di persuadere Israele e Autorità Palestinese (ANP) a raggiungere uno storico accordo di pace è svanito. Prevedibilmente, adesso è iniziato il gioco del rimpallo di responsabilità. Aggiungendo un altro capitolo all'arcinoto copione di insuccessi in Medio Oriente, stavolta l'amministrazione Obama ha scelta di sposare la reazione istintiva dell'alleato europeo puntando il dito contro Gerusalemme, nel momento in cui Israele ha pubblicamente biasimato il segretario di Stato USA Jon Kerry.
Senza dubbio ogni tentativo ha le sue qualità peculiari: il consueto mix di tempistica scellerata, scontro di personalità ed eventi esogeni imponderabile che rendono ogni round di negoziati argomento di riflessioni, dibattiti, resoconti e recriminazioni. Tuttavia ci sono degli elementi che accomunano questi tentativi, se si prescinde da nomi e date: oggi l'inviato speciale USA Martin Indyk, in passato George Mitchell; ma dinamiche, opposizioni e conclusioni sono sempre le medesime.
La diplomazia occidentale, sempre all'apparenza più acuta di tutte le altre - palestinese e israeliana incluse - affinché si giunga alla fine di questo conflitto, dovrebbe chiedersi: perché la pace sfugge sempre? Dopotutto, si tratta degli stessi diplomatici che per vent'anni hanno insistito che i contorni di un accordo di pace sono noti a tutti, e che ogni volta le due parti arrivano ad un passo dall'intesa, come Kerry ebbe modo di affermare lo scorso dicembre, echeggiando l'affermazione del tutto identica pronunciata da Ehud Olmert a luglio 2008. Bizzarro: ogni volta arriviamo vicini come non mai ad un accordo, ma ogni volta l'intesa sfugge. Ma questa è parte del problema...
Dopo vent'anni di tentativi di individuazione del livello di equilibrio perfetto in un complesso schema di rivendicazioni territoriali, identitarie, religiose e materiali, dovrebbe essere chiaro a tutti che la formula del processo di pace prevede ingredienti errati. Se fossero scienziati, capirebbero immediatamente che ripetere lo stesso esperimento più volte, senza variare gli elementi o le quantità, non potrà che condurre al medesimo risultato.
I diplomatici non ci arrivano. È facile biasimare «l'estremismo di ambo le parti», o i gruppi di pressione che agiscono nell'ombra; i danni del nazionalismo o i pericoli di una coalizione rissosa; le ombre del passato o la narrativa della vittoria. Ogni volta qualcosa si para davanti, con gli effetti nefasti che possono essere ridimensionati o neutralizzati soltanto se si modificassero i fattori di partenza.
Gli europei sono soliti incolpare gli Stati Uniti per un atteggiamento benevolo nei confronti di Israele, trascurando opportunamente che la loro amicizia tiepida nei confronti di Israele non potrà mai rimpiazzare le garanzie di sicurezza offerte dall'America. I commentatori progressisti adorano citare i "falchi" israeliani: ciò consente loro di far emergere dal loro subconscio un antisemitismo represso, rinominando per l'occasione l'oggetto del loro odio con termini neutrali come "lobby israeliana", "neocon", "coloni", trascurando il terrorismo, il radicalismo islamico e le dinamiche interne al mondo arabo. La BBC si lava le mani quando si tratta di rappresentare adeguatamente il rapporto fra le parti, adottando una terminologia moralmente non impegnativa, al massimo biasimando entrambi i contendenti e commettendo una equivalenza morale tipica del mondo progressista.
Nessuno, d'altro canto, sembra aver afferrato l'ovvio, perché insapore e inopportuno; specialmente per chi ha spesa una vita nel credere in una pace in Medio Oriente fine a se' stessa, e come rimedio per altri problemi. Non c'è nulla da fare, perché il costo di conseguire una pace supera di gran lunga i benefici per ambo le parti. Dopotutto, per israeliani e palestinesi i blocchi da rimuovere, negli anni, sono rimasti sempre gli stessi: i palestinesi chiedono che ai profughi (i sedicenti discendenti dei circa 35.000 arabi che lasciarono il neonato stato ebraico nel 1948; addirittura oltre sei milioni, secondo le richieste dell'OLP, NdT) sia garantito il "diritto al ritorno", gli israeliani chiedono che sia riconosciuto Israele come stato degli ebrei; le rivendicazioni di ambo le parti di sovranità su Gerusalemme non sono destinate a venire meno, perché altrimenti ciò comprometterebbe il nucleo delle rivendicazioni nazionalistiche di ambo le parti. È improbabile che Israele rinunci alla profondità strategica garantita dal controllo della Valle del Giordano e di aree strategiche del West Bank, in cambio di una vaga garanzia di sicurezza della comunità internazionale.
Il nazionalismo palestinese non può mettere da parte, almeno ufficialmente, la retorica dei milioni di discendenti che furono persuasi a lasciare Israele dalla Guerra del 1948; e tuttavia è irragionevole immaginare una loro sistemazione fisica in un territorio circoscritto come il West Bank e Gaza, a fronte di un'economia gracile come quella palestinese. Benché i nemici di Israele sarebbero felici di imporre un simile dazio sullo stato ebraico, è improbabile che Gerusalemme accetti di commettere un suicidio di tal genere. E se non bastasse, i fallimenti passati e gli sviluppi regionali aggravano la questione. Perché una parte dovrebbe fidarsi dell'altra, quando tutti i precedenti tentativi sono naufragati? che cosa è cambiato per immaginare un risultato differente?
Forse i palestinesi sono disposti a rinunciare alla loro pretesa di ricollocamento dei profughi? hanno rinunciato a delegittimare Israele? i campi profughi si sono ridimensionati? i loro abitanti ambiscono a tornare ai confini antecedenti il 1967? l'Islam ha cessato di dichiarare "città santa" Gerusalemme? e come può Israele negoziare un accordo definitivo con l'Autorità Palestinese, quando Gaza rimane sotto il controllo di Hamas?
Perché Israele dovrebbe assumersi rischi per la pace, quando l'intera area è in fibrillazione? chi crede che un governo palestinese, una volta firmato un accordo, sopravviva abbastanza per rispettarlo, alla luce dell'integralismo islamico che sta scuotendo l'intero mondo arabo?
Il conflitto arabo-israeliano sfugge ad una soluzione. Succede da sempre, e continuerà a succedere nel prossimo futuro. Provare di nuovo dopo aver fallito non condurrà che ad ulteriori fallimenti. È tempo che l'Occidente riconosca che la differenza fra le due parti è incolmabile: prima lo farà, e meglio sarà.
* Realism in the Middle East, su The Commentator.
Aggionamento delle 18.
«Dai, Bibi: ti chiedo scusa per aver detto che Israele rischia di diventare uno stato di apartheid.
Adesso ritorna al tavolo. Ti stiamo aspettando!...» (chi?!?!)
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