Il boom della produzione di gas naturale da rocce scistose (shale gas) sta favorendo una insperata primavera dell'industria manifatturiera americana. Il fenomeno della delocalizzazione sta rapidamente rientrando, e diverse grandi compagnie stanno ricollocando la produzione all'interno dei confini nazionali; incoraggiate da un costo dell'energia in caduta libera. Basti pensare che un milione di BTU (British Thermal Unit, l'unità di misura del gas naturale) costa 9 dollari e mezzo nel Regno Unito, 11 dollari in Germania e quasi 17 dollari in Giappone. In USA, 1 mBTU costa meno di 3 dollari e mezzo. Non sorprende che diverse abitazioni di nuova costruzione sono alimentate a gas naturale: una fonte di energia relativamente pulita, e di cui gli USA disporranno in crescenti quantità.
Ma c'è un altro stato al mondo, che sta lavorando alacremente alla propria indipendenza energetica. Per porre fine alle ostilità, Israele ha riconsegnato la penisola del Sinai, letteralmente galleggiante sul petrolio, all'Egitto del 1978, in cambio della sottoscrizione di un trattato di pace che dura tuttora. Lo stato ebraico è completamente dipendente dall'estero per l'approvvigionamento energetico, e non è un mistero che i ripetuti attentati terroristici agli oleodotti miravano proprio a minarne l'attività manifatturiera.
Ma come riporta oggi il Financial Times, Gerusalemme sta lavorando per diventare in tempi brevi addirittura un paese esportatore di energia. Al largo delle coste di Ashdod, nell'Israele meridionale, è in funzione la piattaforma di Tamar, frutto della joint venture fra un'azienda israeliana e la texana Noble Energy. Il progetto, del valore di 3.5 miliardi di dollari, ha iniziato a produrre gas da marzo, e contribuirà quest'anno al PIL israeliano per un punto percentuale pieno. Il gas destinato all'esportazione, ottenuto di recente il consenso dalla Corte Suprema in tal senso, dovrebbe invece provenire dal giacimento "Levietano", situato una trentina di chilometri ad ovest di Tamar, e dalla capacità stimata in 19000 miliardi di piedi cubici.
Le destinazioni più immediata sarebbero la Turchia, la Grecia, la Giordania o anche l'Egitto; paesi che così beneficierebbero di drastiche riduzioni dell'attuale bolletta energetica. È una situazione "win-win", per usare le parole del responsabile operativo della Delek Drillings, l'azienda israeliana responsabile della ricerca e dell'estrazione. Malgrado i rapporti ufficiali siano quantomeno accidentati, le autorità turche si sono dichiarate molto interessate al gas israeliano. Ma al di là di aspetti commerciali ed economici, la prossima piena autosufficienza energetica del piccolo stato ebraico si riverbererà su tutti i rapporti con gli stati arabi confinanti, ai quali riuscirà meno facile il tentativo di mettere in ginocchio Gerusalemme strozzando le forniture di petrolio. Gli stessi Stati Uniti, che si stanno defilando maldestramente dal Medio Oriente, vedrebbero ridurre il loro attuale potere di condizionamento nei confronti di Israele.
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