Il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al rialzo le stime di crescita per l'economia israeliana: al 2.5% per l'anno corrente, e al 3.3% nel 2016. In un recente rapporto, gli economisti del FMI hanno evidenziato come l'economia dello stato ebraico sia stata intoccata dalla Grande Recessione, grazie all'apertura agli scambi internazionali e alla consistente presenza del settore tecnologico, che costituisce più del 40% delle esportazioni industriali.
La robusta crescita economica consentirà ulteriori progressi sul fronte dell'occupazione, con il tasso di disoccupazione destinato a permanere sui minimi storici. Secondo gli studiosi del Fondo, si tratta di un autentico miracolo: negli ultimi 25 anni, gli occupati sono cresciuti del 3.5%; all'anno. Non a caso, non solo Israele ha realizzato la migliore performance economica del mondo occidentale dal 2007 ad oggi; ma allo stesso tempo, è l'unico membro OCSE ad aver battuto le previsioni di crescita complessive formulate dal Fondo otto anni fa.
Il boom economico in essere da anni in Israele, e il generale miglioramento del benessere collettivo, sta ponendo ragionevoli interrogativi circa la proficuità di combattere lo stato ebraico per mezzo di iniziative di boicottaggio economico. È notizia di questi giorni la chiusura dello stabilimento della SodaStream localizzato a Ma'ale Adumim, nella periferia di Gerusalemme. L'impianto dava lavoro a 500 famiglie palestinesi, oltre a 400 impiegati che lavoravano nell'indotto. Gli ex dipendenti di SodaStream percepivano 6000 shekel al mese; oggi sono disoccupati. Se mai trovassero un altro impiego nei territori palestinesi, porterebbero a casa meno di 1500 shekel.
Secondo alcuni attivisti, le iniziative del BDS non sono appoggiate dall'Autorità Palestinese, che anzi sottotraccia tenta di contenerle, se non addirittura di contrastarle, visti gli sgradevoli effetti collaterali che esse producono: penalizzano i palestinesi ben più di quanto poco evidentemente danneggino gli israeliani.
Se è quantomeno incauto per un ebreo avventurarsi nei dintorni di Ramallah, non è raro imbattersi in palestinesi che lavorano negli insediamenti ebraici nel West Bank. Carpentieri, muratori, fabbri ed elettricisti sono alle dipendenze di aziende edili che realizzano alloggi nelle comunità ebraiche al di là della Linea Verde: nessuno di essi denuncia il sopruso subìto, o chissà quale umiliazione. A ben vedere, l'"occupazione" è denunciata solo da chi a parole dichiara di tenere alle sorti della "causa palestinese", che non dai palestinesi medesimi.
Non di rado, malgrado il boicottaggio commerciale urlato, si scorgono sugli scaffali palestinesi prodotti e beni di largo consumo con il famigerato codice "729", tanto avversato dai fanatici del BDS. Come insegna la teoria economica, è controproducente avversare le produzioni straniere, se sono di qualità migliore e disponibili a prezzi inferiori di quanto sarebbe realizzabile internamente. Qualche tempo fa fece clamore la visita dei gerarchi di Hamas presso un asilo di Gaza; sui cui banchi troneggiavano merendine e succhi di frutta riportanti scritte in ebraico: dura fare la rivoluzione, accontentando gli odiatori di Israele; specie quando la rinuncia agli snack dovrebbe andare di pari passo con la rinuncia a bevande, sigarette, gelati, alimentari, per non parlare degli ultimi gadget tecnologici, in buona misura Made in Israel.
I palestinesi dovrebbero ricorrere all'autarchia? è dibattibile. Ma se ci si lamenta l'inesistenza di un'economia in grado di generare risorse per tutti, a monte bisognerebbe denunciare l'assenza di condizioni minime per la costituzione di uno stato. Come può esistere uno stato, se non esiste un'economia? Ecco che la vicinanza di Israele rappresenta una benedizione per i territori palestinesi; che potrebbero mettere da parte la retorica antisemita - e ancora prima il regime che da decenni prospera su di essa - e iniziare un sincero processo di integrazione economica dalla quale avrebbe tutto da guadagnare. La pace, non tarderebbe a sopravvenire.
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