Strana creazione, la democrazia. Un abito che si indossa in svariati modi, a seconda delle latitudini e delle stagioni. Due anni fa il presidente Obama, temendo per la sua rielezione, esortò il governo israeliano a desistere dal fermo proposito di garantire l'incolumità della sua popolazione colpendo le installazioni nucleari iraniane. Sarebbe stato un intervento risolutivo e già sperimentato con successo nel passato (Operazione Babilonia 1981); ma l'ex senatore junior dell'Illinois, già allora in calo di consensi, preferì non aprire uno nuovo spinoso fronte di politica estera, e riuscì a dissuadere il governo di Gerusalemme - con cui non è mai andato d'accordo - promettendo un intervento successivo. Puntualmente giunto: oggi Washington è sempre più alleato; del regime di Teheran, di cui di fatto garantisce la continuazione del programma di arricchimento dell'uranio.
Non soddisfatto di questo colpo basso, un alto esponente dell'amministrazione Obama ha trovato il modo di definire Netanyahu una "merda di gallina" (chickenshit), espressione alquanto sgradevole per definire una persona codarda e priva di attributi maschili. Il riferimento è sempre all'Iran, che ormai avrebbe collocato i propri impianti sufficientemente al riparo dai strike a sorpresa israeliani. Beffarda la dichiarazione fornita: «È troppo tardi per fare qualunque cosa. Due, tre anni fa, si poteva agire. Ma in ultima analisi, non era capace (Netanyahu, NdR) di prendere provvedimenti. È stata una combinazione del nostro intervento e della sua incapacità di assumere decisioni drammatiche. Adesso è troppo tardi».
Pacata la reazione dell'Ufficio del Primo Ministro (PMO) israeliano: sin troppa. Sconcerto e imbarazzo per questa improvvida sortita? ma quando mai: difficilmente il Presidente in persona sentirà il bisogno di correggere il tiro, e di confortare l'alleato (???) mediorientale per la sortita del membro dello staff. L'unica dichiarazione proveniente dalla Casa Bianca, conferma l'appoggio americano di cui può tuttora godere Gerusalemme al Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Un inutile endorsement che sembra al tempo stesso un monito.
Evidentemente in Medio Oriente ci sono democrazie che risultano più apprezzate dall'Amministrazione Obama. Quella egiziana dei Fratelli Musulmani, spazzati via 15 mesi fa dall'avvento di Al Sisi, che sta ripulendo il Sinai dalla presenza dei fondamentalisti islamici; e pazienza se nel frattempo si faccia piazza pulita a Gaza, compiendo operazioni che avrebbero indignato l'intera comunità internazionale se fossero state minimamente compiute da Israele.
O forse quella iraniana del "bonario" Rohani, che ha appena battuto un nuovo record di esecuzioni capitali.
Più probabilmente strizza l'occhio alla "democrazia" palestinese, capace di partorire un governo di unità nazionale fra Hamas e Al Fatah dopo sette anni di contrasti, arresti ed esecuzioni reciproche, attentati sanguinosi e scontri furenti. Benedetto in Egitto, il nuovo governo avrebbe dovuto preparare il terreno a nuove elezioni palestinesi. Il povero Abu Mazen, il cui mandato è scaduto da quasi sei anni, proprio non ce la fa più ad ammassare potere e ricchezza, e non vede l'ora di cedere la mano (o forse no).
Detto, non fatto: si apprende oggi che le elezioni presidenziali e legislative nei territori palestinesi non saranno celebrate fino a nuovo avviso; una formula che riecheggia il rinvio delle partite di calcio a data da destinarsi per impraticabilità di campo. A cinque mesi dalla formazione di un governo, il cui gesto più eclatante è risultata la provocatoria passeggiata del suo Primo Ministro Hamdallah fra le strade di Gerusalemme (se Bibi Netanyahu si avventurasse sulla Spianata delle Moschee...), il delegato per la "riconciliazione" precisa che la chiamata alle urne non è da prevedersi a breve; citando la propensione del Fatah a disconoscerne il risultato.
Così, Abu Mazen resterà presidente ultradecennale dal mandato quadriennale di una Autorità Palestinese tanto delegittimata quanto sfrontata nel presentarsi alle Nazioni Unite; e Hamas resterà autorità regnante in una enclave dove la popolazione fa fatica ad esprimere tutto il proprio disappunto nei confronti dell'organizzazione terroristica islamica.
Sullo sfondo, l'avventurosa richiesta di riconoscimento statuale: uno stato privo di confini definiti, privo di un'economia che si basi su qualcosa di diverso da sovvenzioni internazionali, contrabbando e corruzione; privo di una leadership legittimata dal voto popolare; privo della benché minima intenzione di vivere in pace con gli stati confinanti. E non si tratta soltanto di Israele; ma anche di Egitto e Giordania.
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