di Timon Dias*
Secondo un recente studio, il popolo palestinese ha ricevuto, in termini reali aiuti pari a 25 volte quelli ricevuti dagli europei delle nazioni devastate dalla II Guerra Mondiale sotto il Piano Marshall. Secondo lo studio, la maggior parte di questi fondi sono stati veicolati verso il popolo palestinese tramite la United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA). Si tratta dell’unica agenzia delle Nazioni Unite concepite specificatamente per una sola popolazione; l’unica che definisce come rifugiati coloro che hanno vissuto per almeno due anni in una specifica area nel momento in cui è scoppiata la guerra arabo-israeliana del 1948. E si tratta anche dell’unica agenzia che identifica i discendenti degli originari rifugiati come anch’essi rifugiati, sebbene il 90% di quelli che l’UNRWA originariamente definì come tali che non si sono mai allontanati dal luogo di origine.
L’UNRWA, inoltre, viola la convenzione dei rifugiati dell’UNHCR, continuando a considerare rifugiati due milioni di persone (il 40% dei beneficiari delle erogazioni dell’UNRWA) che godono di piena cittadinanza in Giordania, Siria e Libano, incoraggiando loro oltretutto a pretendere un fantomatico “diritto al ritorno”.
Benché, dopo la II Guerra Mondiale, 50 milioni di persone siano state strappate dalle loro case in virtù del conflitto armato, soltanto i palestinesi da allora hanno beneficiato di questo speciale trattamento.
Prima di illustrare perché l’UNRWA sia un organismo che riduce drasticamente le possibilità di una pace duratura, vediamo prima quali persone ricevono i suoi contributi. Dopotutto, non esiste il denaro pubblico: esiste solo il denaro dei contribuenti...
Il bilancio complessivo dell’UNRWA per il 2012 si attesta a 908 milioni di dollari. Sebbene la costante retorica di appoggio alla “causa palestinese” da parte del mondo arabo possa indurre a ritenere che l’organismo sia finanziato principalmente da paesi musulmani, al contrario l’UNRWA è finanziata interamente dai contribuenti occidentali: Stati Uniti, Europa, Regno Unito, Svezia, Norvegia, Germania, Olanda e Giappone versano 645 milioni di dollari all’anno, pari al 71% del totale. Dove si collocano i paesi musulmani? il primo, fra i contributori, è l’Arabia Saudita: 15esima, con appena 12 milioni di dollari; la metà di un piccolo paese come l’Olanda. Poi viene la Turchia, 18esima, malgrado il suo Primo Ministro sostenga apertamente Hamas, salvo elargire un obolo di appena 8 milioni di euro. Il Qatar, accusato di aver pagato milioni in tangenti per acquisire il Campionato Mondiale di Calcio del 2022, e che sta spendendo milioni nella costruzione di stadi di ultima generazione, versa zero dollari all’anno ai suoi “fratelli” palestinesi.
Questi dati riflettono egregiamente la natura del ruolo che i paesi musulmani giocano nella questione israelo-palestinese. Non di rado essi si mostrano ostili nei confronti di Israele, e simpatizzanti al punto da esclamare espressioni tipo “Free Palestine”, che è un modo elegante per urlare “morte ad Israele”. Anche questo sostegno inconsistente, risulta rafforzare la determinazione della leadership palestinese a rifiutare la pace, quando se ne manifesta l’opportunità. Ciò non fa altro che perpetrare l’agonia palestinese, assieme al rifiuto degli stati musulmani di fornire qualcosa di tangibile quando si tratta di affrontare i problemi quotidiani e le esigenze dei palestinesi. Alla fine il ruolo dei paesi musulmano in questo conflitto sembra di natura sovversiva, finalizzato alla perpetrazione delle sofferenze dei palestinesi onde distrarre l’opinione pubblica dalle loro malefatte, come la terribile tradizione di negazione dei basilari diritti umani, la mancanza di democrazia e la repressione del dissenso della popolazione. Lo stesso Assad ha abbondantemente sovvenzionato i palestinesi siriani per aggredire nel 2011 i confini israeliani, onde distrarre l’opinione pubblica dalla sanguinosa repressione dei suoi stessi cittadini; dirottando l’attenzione dei media verso il tentativo da parte israeliana di evitare l’invasione straniera. Gli stati musulmani usano i palestinesi come pedine in un macabro gioco di strategia ai danni di Israele.
Ora che sappiamo da dove viene – e non viene – il denaro, può essere utile apprendere l’utilizzo che di esso da l’UNRWA. Una premessa, da tenere ben presente: la ricchezza personale del presidente Abu Mazen è stimata in 100 milioni di dollari. L’UNRWA finanzia pure i campi estivi per i bambini palestinesi in cui sembra non farsi altro che inculcare la convinzione che possano tornare nei villaggi dove si dice 70 anni fa abbiano vissuto i loro nonni, e il modo migliore per perseguire questo obiettivo: mediante il Jihad, come mostrato in un raccapricciante documentario dal titolo Camp Jihad, prodotto da David Bedein.
In una scena di questo documentario, ad esempio, una donna chiede ad un bambino da dove provenga. C’è chi dice Jaffa, chi Haifa; ma tutti ammettono di non essere mai stati in questi luoghi. La donna a quel punto esclama: «torneremo nei nostri villaggi con la forza e l’onore. E non l’aiuto di Allah e le nostre forze intraprenderemo la guerra, e grazie all’istruzione e al jihad ritorneremo!»
In un’altra scena, una donna in abiti arabi tradizionali si rivolge ad un gruppo di bambini ancora più piccoli: «i nostri nonni stavano facendo un barbecue sulla spiaggia, quando all’improvviso apparve un lupo. Chi era il lupo? gli ebrei! e cosa ci hanno fatto gli ebrei? ci hanno cacciati e allontanati. Hanno ucciso noi e le nostre famiglie».
A prescindere da esperienze come questa, l’intera architettura dell’UNRWA si rivela controproducente. Se l’intera leadership palestinese prescinde dalle verifiche internazionali che si concretizzano soltanto una volta all’anno in virtù della persistenza del conflitto, non c’è un grosso incentivo affinché esso si conclude.
Ma c’è dell’altro: il libro del 2003 del sociologo tedesco Gunnar Heinsohn “Sons and World Power” esplora la relazione fra guerra e percentuale di maschi nella società: «Malgrado la presunta volontà di portare la pace in quest’area, l’Occidente continua ogni anno a peggiorare la questione demografica a Gaza. Sovvenzionando generosamente l’UNRWA, l’Occidente assiste ad una crescita della popolazione pari a dieci volte quanto sperimentato in patria. Si parla molto dell’Iran che pone in essere una guerra per procura sostenendo Hezbollah e Hamas. Ma si potrebbe ben argomentare che incoraggiando la crescita esplosiva della popolazione, senza volerlo l’Occidente finanzia una guerra per procura nei confronti di Israele. Se vogliamo davvero evitare un’altra generazione di ostilità a Gaza, dobbiamo avere il coraggio di dire ai palestinesi di Gaza che devono iniziare a badare ai propri figli senza dover contare sui sussidi dell’UNRWA. Ciò indurrebbe la popolazione di Gaza a concentrarsi sull’economia, anziché impegnarsi una guerra permanente. Se porremo in essere questa urgente riforma, forse fra una dozzina d’anni i ragazzi di Gaza, o se è per questo d’Algeria, saranno in grado di aspettarsi un futuro più sereno in una società meno violenta».
Perpetrando la condizione permanente di rifugiato, e favorendo un boom demografico che non coincide con l’insegnamento dei precetti di pace, l’UNRWA è uno ostacolo alla stessa pace. Ironico che l’agenzia dell’ONU faccia affidamento su una ipotetica responsabilità di Israele per prendersi cura di oltre cinque milioni di palestinesi.
Cosa può fare l’Occidente, con i suoi corposi finanziamenti, per riequilibrare le politiche dell’UNRWA? In un articolo sul Jerusalem Post, Daniel Pipes fornisce una soluzione che finora è rimasta inascoltata: «si può salvare certi aspetti delle politiche dell’UNRWA, senza perpetrare la questione dei rifugiati? Sì, ma bisognerebbe distinguere il ruolo dell’UNRWA come agenzia di servizi sociali, da quello di produzione di massa di rifugiati. A differenza della consuetudine di registrare i nipoti come rifugiati, la sezione III.A.2 e la sezione III.B del Consolidated Eligibility & Registration Instructions dell’UNRWA consente di fornire prestazioni sociali ai palestinesi, senza necessariamente classificarli come rifugiati. Questa prescrizione in effetti è già operativa: nel West Bank, ad esempio, il 17% dei palestinesi registrati presso l’UNRWA beneficia dei suoi servizi senza essere classificata come rifugiati.
Dal momento che l’UNRWA riferisce all’assemblea generale delle Nazioni Unite, con la sua maggioranza anti-israeliana, porre in essere un cambiamento nelle politiche dell’UNRWA è pressoché impossibile. Ma i principali finanziatori dell’UNRWA, a partire dal governo americano, dovrebbero cessare di assecondare la consuetudine di perpetrare la questione dei rifugiati».
I paesi donatori dovrebbero pertanto considerare di sottoporre a condizioni le loro elargizioni. Con una donazione annuale di 233 milioni di dollari, gli Stati Uniti dovrebbero dare il buon esempio, mentre i paesi europei dovrebbero pretendere di conoscere cosa viene fatto dei 204 milioni di dollari versati annualmente all’UNRWA, imponendo condizioni all’impiego di queste somme di denaro.
Altrimenti, se la situazione resterà immutata, i palestinesi continueranno a soffrire, alimentando aspettative irrealistiche e fomentando la violenza.
* Gatestone Institute.
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