lunedì 2 settembre 2013

Questo è Israele

Alle volte riesce difficile descrivere in poche parole un paese con migliaia di anni di storia alle spalle, in cui si mescolano culture e religioni di cento altri paesi. Alle volte, le descrizioni hanno una valenza positiva: «ecco che cosa è Israele». Ne parlo da sei anni e forse non posso aggiungere molto a quanto già detto in passato. Ma qualche minuto fa, stanca del giudizio degli altri sul mio paese, ho deciso per l'ennesima volta di vincere la pigrizia e di ripetermi. Non è quello Israele. Ecco che cos'é Israele. Israele non scalpita ansiosamente affinché gli Stati Uniti attacchino la Siria. Ma ci sono dei distinguo Anzitutto, essendo scampati all'Olocausto, conosciamo il pericolo, la rabbia, la realtà aberrante di un mondo che resta a guardare mentre la gente è gassata fino alla morte. Tutti paghiamo in prima persona nell'ignorare questa realtà: e non si tratta soltanto di israeliani, perché quelli che succede in Egitto, in Siria, nello Yemen e in altri posti, alla fine ricade sulla propria pelle. È successo l'11 settembre; ed è successo a Boston, a Londra e a Madrid.
Israele non attende con ansia un intervento americano in Siria. Possiamo difenderci da soli e lo faremo, e la Siria è l'ultima delle nostre preoccupazioni. Come ho sentito dire da tante parti, la Siria tenterà di rivalersi su Israele, ma quando qualcuno di questi missili atterreranno (e qualcuno ci riuscirà e, sicuro, ci saranno feriti; e speriamo tanto che non ci scappino i morti) i nostri figli saranno decollati in volo e avranno risposto in modo così convincente, che la Siria impiegherà generazioni prima di riprovarci.
Israele non sta aspettando ansiosamente l'attacco americano a Damasco. Ma non ci fidiamo delle capacità di Barack Hussein Obama. Non è riuscito a salvare la pelle a quattro americani a Bengasi; figuriamoci se possa riuscire a mettere in salvo l'intero popolo israeliano.
Non confidiamo nella Francia, o nel Regno Unito o addirittura nell'ONU. Quando sarà il momento di affrontare l'Iran, lo faremo. Quando la Siria si avvicinerà troppo alla nostra, di linea rossa, affronteremo la situazione.
Non è nostro compito salvare i siriani da se' stessi, sebbene curiamo amorevolmente diecine, se non centinaia di persone ferite nei nostri ospedali; incluso quello sopraggiunto con una granata in tasca.
Come ogni ebreo sa, proviamo dolore alla visione di bambini siriani ammazzati, gassati, o resi orfani. Non possiamo agire nei confronti del regime siriano per conto loro, senza correre il rischio di una guerra quantomeno regionale. Con la fortuna che ci ritroviamo nell'avere a che fare con i dittatori arabi, ogni intervento israeliano è a rischio di attivare qualche balordo in Iran, in Iraq, in Egitto, in Arabia Saudita, che si sentirebbe impegnato a lanciare qualcosa di "santo" nei confronti di Gerusalemme.
Ma come ebrei, non possiamo fare a meno di ricordare al mondo intero cosa succeda ogni volta che il mondo si dimostra indifferente e silenzioso: penso ad Hitler, al Darfur, al Congo, alla Somalia; e ora, alla Siria.

Fonte: La madre di un soldato.

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