mercoledì 7 ottobre 2015

Anche "The Economist" punta il dito contro Abu Mazen

C'è una notevole discrepanza fra l'enorme mole di donazioni internazionali che raggiungono i territori palestinesi amministrati dall'ANP e da Hamas, e il benessere della popolazione. Secondo il Global Humanitarian Assistance Report, nello scorso decennio i palestinesi hanno ricevuto sovvenzione pro-capite di gran lunga superiori agli spiccoli elargiti a Libano, Somalia, Liberia, Sudan, Chad, Angola e via discorrendo; malgrado in questi stati martoriati da carestie, guerre civili e crisi umanitarie, il benessere sia ben inferiore.
La retorica pacifista inaugurata dagli Accordi di Oslo ha generato aspettative rivelatesi ben presto infondate: gli svariati miliardi di dollari che la comunità internazionale ha destinato alla "questione palestinese" non hanno migliorato sostanzialmente le condizioni medie di vita. La maggiore prossimità alle gerarchie del Fatah e di Hamas ha generato migliaia di nuovi milionari, mentre la massa è stata alimentata ad odio e violenza: si incoraggia più facilmente ad impugnare un coltello, quando la pancia è vuota.
Il rischio, però, in questi casi, è che collera e frustrazione si ritorcano contro chi alimenta il fuoco nel tentativo di perpetuarsi al potere. Ufficialmente il dissenso e l'aperta opposizione non trovano spazio a Ramallah e a Gaza; quantomeno, sono ovattati all'interno delle carceri dove i contestatori sono accolti senza troppi riguardi. La TV "di Stato" trasmette i paternali del vecchio capo dell'OLP, in crisi di immagine, se le emittenti consigliano un profondo make-up che ringiovanisca l'immagine e rilanci l'approvazione. Lo rivela il settimanale britannico "The Economist", in un raro articolo di stigma della corrotta leadership palestinese. Il guaio, è che il mago del make up, noto a tutti i politici mondiali, propone una parcella di 12.000 dollari al mese: quattro anni circa di paga media per il palestinese medio; bruscolini, per chi ha speso 13 milioni per la propria villa faraonica, e 25.000 dollari per un paio di scarpe commissionate ad un abile (commercialmente, quantomeno) artigiano italiano.


Corruzione e malaffare dominano la scena e i conti dell'aspirante stato; allo stato attuale carrozzone traballante peggio della peggiore Cassa per il Mezzogiorno. A leggere il resoconto degli auditor che hanno spulciato i conti dell'ANP verrebbe da mettere una mano ai capelli e l'altra al portafoglio, con finalità difensive: il 40% dei bilanci degli ultimi vent'anni è finito nel nulla, assorbito da sprechi e malversazioni; il governo dichiara un consistente numero di "impiegati fantasma", le cui retribuzioni finiscono direttamente nelle tasche della dirigenza; non mancano le aziende fantasma, come quella joint venture da 6 milioni di dollari italo-palestinese, che avrebbe dovuto costruire tubi in metallo, ma che è rimasta lettera morta. I soldi, nel frattempo, sono stati elargiti; ma non ditelo ai contribuenti italiani, tutti intenti a condannare la loro, di casta.
Se si chiede ad un palestinese qual è il problema più angosciante che lo assilla, si può scommettere sul fatto che denunci "l'occupazione" israeliana: dopotutto lo sforzo di generare uno stato palestinese è finalizzato a distruggere lo stato israeliano. Tuttavia, se il 28% dei palestinesi si allinea agli statuti istitutivi di OLP e Fatah; ben il 24% della popolazione corre il rischio di denunciare la corruzione del regime, e più della metà auspica l'accantonamento delle istituzioni nate dopo il 1993.
Una aspirazione che deve aver spiazzato lo stesso "Abu Mazen", che di recente ha minacciato lo scioglimento dell'ANP nel tentare di esercitare pressioni su Gerusalemme: un provvedimento controproducente, per la corrotta burocrazia elefantiaca palestinese, ma nel caso salutare e benvenuto, perché consentirebbe dal giorno successivo di porre le basi per un nuovo corso.

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