Il processo di pace in Medio Oriente fa un piccolo passo in avanti, ma la cautela e lo scetticismo prevalgono. Abu Mazen ha ricevuto ieri sera a Ramallah un emissario del capo del governo di Gerusalemme, latore di una missiva contenente il percorso che Netanyahu propone per rilanciare il processo di pace.
Le discussioni si sono interrotte nell'autunno di due anni fa, quando in imminenza di scadenza della moratoria di dieci mesi concessa da Israele relativamente all'attività edilizia nei territori contesi, l'Autorità Palestinese ebbe un sussulto di vitalità e pretese una ulteriore dilazione come condizione per procedere ai negoziati di pace. Un'occasione persa che provocò la comprensibile irritazione dell'opinione pubblica mondiale, attonita per l'assenza prolungata di Abu Mazen dal tavolo delle trattative.
Il processo di pace si è rivitalizzato nelle ultime settimane con due episodi; prima, con la lettera che Abu Mazen ha inviato a Gerusalemme, contenente le solite pretese irricevibili (la fissazione di confini sulla base delle linea fissate dal "cessate il fuoco" del 1949, la liberazione dei detenuti palestinesi, il riconoscimento dei quartieri orientali di Gerusalemme come futura capitale dello stato palestinese, e la cessazione immediata dell'attività edile nei territori contesi). Non è noto il contenuto della lettera che Netanyahu ha inoltrato al presidente dell'Autorità Palestinese, ma è facile supporre che contenga linee guida più ragionevoli; fermo restando che, in ossequio agli Accordi di Oslo del 1993 che hanno dato vita alla stessa Autorità Palestinese, la creazione di due stati nella palestina storica è il punto di arrivo di negoziati bilaterali, e non di iniziative unilaterali - come l'avventura infelice di Abu Mazen alle Nazioni Unite lo scorso anno, avversata da buona parte della stessa dirigenza palestinese - ne' da pre-condizioni che minano in partenza lo stesso processo di pace.
L'altro episodio, più recente, è stato l'allargamento della compagine governativa israeliana per cooptazione del partito Kadima in precedenza all'opposizione, con il quale l'Esecutivo di Gerusalemme gode ora della maggioranza più corposa dalla nascita di Israele, e che permetterà di intraprendere iniziative che assumeranno rilievo storico, possiamo esserne certi.
Mentre a Ramallah si ragionerà sul contenuto della nuova proposta israeliana per tornare finalmente a sedersi al tavolo delle trattative, altrove nei prossimi giorni gli animi si riveleranno ben più surriscaldati. Ricorre ancora una volta l'anniversario del Nakba, la "sciagura" degli arabi che si fa coincidere con la fondazione dello stato di Israele. Ancora una volta si porrà l'enfasi sulla sorte dei 700 mila arabi che lasciarono il neonato stato ebraico, convinti in ciò dagli stati arabi confinanti che stavano per scatenare una gigantesca offensiva, risoltasi come sappiamo in cocente sconfitta. Ancora oggi si pone poca enfasi sulla sorta toccata invece agli 850 mila ebrei che fino ad allora vivevano in pace nei paesi arabi, costretti a lasciare tutto per la pulizia etnica che toccò loro. Alcuni commentatori rovesciano il ragionamento, parlando di pulizia etnica in Israele. Strano modo di ragionare, con riferimento ad uno stato dove il 20% della popolazione è araba, partecipa attivamente alla vita civile e politica, gode di pieni diritti, siede in parlamento e sui più alti banchi della giustizia. Nei paesi arabi, di converso, la popolazione ebrea è calata da un milione a 4000 persone. E la "primavera araba" sta decimando ulteriormente questa simbolica presenza, nel silenzio (imbarazzato) generale.
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