«L'Iran non avrà l'atomica», sentenzia con scarsa convinzione Obama, rivolgendosi alla platea dell'AIPAC, l'associazione pro-Israele d'America. Ma, in fondo, perché non credergli? in fondo nel 2008 ha già affermato che
- «Israel security is sacrosanct and non-negotiable, with secure, defensible borders»; che non sono certo le linee armistiziali del 1949 (ribattezzate erroneamente "confini del 1967"), ma le linee successive alla Guerra dei Sei Giorni;
- «Gerusalemme è la capitale di Israele», senza accennare ad uno status analogo per i quartieri orientali, su cui gli arabi vorrebbero mettere le mani (presumibilmente, per ritrasformarli in un pisciatoio, come erano prima del 1967, quando Gerusalemme era occupata dalla Giordania).
Poi dopo tre anni, nel 2011, ha cambiato idea. Per opportunismo? mah!... per fortuna che nuove elezioni incombono, e si può indossare la maschera dell'"amico di Israele" di fronte alla platea dell'AIPAC...
Questo interessante video di trenta minuti traccia un riassunto completo delle relazioni fra il presidente americano e lo stato ebraico: sin da quando Obama ha visitato tutte le capitali del Medio Oriente, evitando accuratamente Gerusalemme, senza mancare di blandire le dittature arabe, trascurando la concreta minaccia apportata alla sovravvivenza di Israele. Fino a recitare il ritornello dell'attività edile israeliana nei territori contesti, come "causa" del deragliamento del processo di pace, ignorando i continui inviti in tal senso rivolti dal governo Nethanyahu alla leadership "moderata" palestinese per tutto il 2010; inviti caduti inascoltati malgrado la volenterosa moratoria di dieci mesi sugli insediamenti. E fino a cadere nel grossolano errore di ritenere la nascita dello stato di Israele un indennizzo alla tragedia dell'Olocausto subita dagli ebrei; quando l'intera regione è stata popolata da ebrei almeno mille anni prima dell'avvento di Cristo; senza considerare il contenuto della Conferenza di Sanremo del 1920, che assegnava al Regno Unito un mandato in "Palestina", dove sulle ceneri della disgregazione dell'impero ottomano sarebbe sorto lo stato ebraico, su confini ben più ampi di quelli attuali.
Nel video si evidenzia l'ossessione per lo stop dell'espansione edilizia, senza che Obama mai posto l'accento sulle nefandezze del regime palestinese: dalla glorificazione dei terroristi suicidi, all'insegnamento dell'odio e del disprezzo degli ebrei sin dalle scuole materne; dalla negazione dello stato di Israele sotto qualunque confine al silenzio di fronte alla celebrazione, da parte di Abu Mazen, di un terrorista responsabile dell'uccisione di 37 cittadini israeliani.
Obama si rivolge dunque all'AIPAC, con il sorriso sulle labbra e con la mano al portafoglio dei partecipanti, dimentico del trattamento irriguardoso usato nei confronti dell'"alleato" (è ancora tale?) del Vicino Oriente. Come quando ha giudicato un "insulto" l'approvazione da parte del comune di Gerusalemme di un progetto edilizio su un territorio non conteso ne' mai rivendicato dai palestinesi; sempre nel tentativo di dimostrare alla parte araba che sa usare il pugno duro - e non esita a farlo - nei confronti di Israele. O come quando ha fatto entrare il premier israeliano Nethanyahu, in visita ufficiale a Washington, da un ingresso secondario e non da quello principale, come si conviene nei confronti di un capo di governo di una nazione con cui non si è in guerra; facendolo attendere per più di un'ora, e lasciandolo all'improvviso per riunirsi a cena con la sua famiglia. Qualche giorno dopo Obama ospitava Abu Mazen, accolto con tutti gli onori, e congedato con un assegno da 70 milioni di dollari.
Queste "frizioni" nei confronti di un alleato storico devono essere suonate come una approvazione preventiva di iniziative di disturbo, se non proprio ostili, da parte dei paesi arabi confinanti. Come quando a metà 2010 un'organizzazione turca, affiliata ad Al Qaeda, organizzò una spedizione diretta a Gaza con l'intento di violare l'embargo marittimo legittimamente posto per impedire la consegna di armi e munizioni ai terroristi di Hamas. Dopo la condanna iniziale, la successiva conoscenza dei fatti evidenziò la natura bellicosa dell'iniziativa, scagionò l'operato dell'esercito israeliano, ma non prima di aver gettato una buona dose di immeritato discredito. Obama, ancora una volta, si scagliò contro Israele, e dalla parte della prevaricazione e del terrorismo, confermando la sua "amicizia" nei confronti del turco Erdogan.
E siamo allo scorso anno, quando Obama, per ingraziarsi le piazze arabe in rivolta, annunciò l'orientamento americano verso un riconoscimento dei confini di Israele antecedenti alla Guerra dei Sei Giorni: una ipotesi assurda, che comporterebbe la rinuncia alla difesa dalle aggressioni esterne; che ci sono, da tutti i punti cardinali. Una ennesima pugnalata nei confronti del popolo israeliano e del suo leader, che giusto in quelle ore stava atterrando ancora una volta negli Stati Uniti alla ricerca di una chiarificazione. Una esternazione dal sapore dell'imposizione, che in quei giorni conobbe la ferma condanna dallo stesso entourage democratico, imbarazzato per la sortita del Presidente.
Ma Obama non demorde, e più avanti sembra avallare la scelta di Abu Mazen di rivolgersi direttamente alle Nazioni Unite per ottenere il riconoscimento di uno "stato di Palestina", in spregio agli Accordi di Pace di Oslo, che hanno portato alla stessa creazione dell'Autorità Palestinese, generosamente finanziata da uno speranzoso quanto ingenuo Occidente. Un endorsement ben compreso dalla leadership palestinese, conscia di avere di fronte il presidente americano più sbilanciato dai tempi di Carter; silente, di fronte alla decisione dell'AP di unire le forze con l'organizzazione terroristica Hamas - tale essendo riconosciuto dagli stessi USA - che dal 2007 governa nel terrore la Striscia di Gaza.
Il disprezzo di Obama verso Israele è confermato ancora una volta quando in una registrazione Sarkozy si lamenta di Nethanyahu, definendolo in maniera volgare; al che il presidente americano sconsolato rimarca: «a chi lo dici: a me tocca sentirlo ogni giorno!»
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