martedì 20 marzo 2012

L'eterno vizio di «minimizzare» e la solitudine dei bersagli dell'odio



Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera di oggi.
Leggere questa riflessione, ferma, pacata ma struggente, è un pugno allo stomaco, e un tentativo di risveglio di molte coscenze ancora sopite.
Il rischio peggiore della strage di Tolosa è la tendenza alla minimizzazione. Perché i giornali si interrogano solo sul dove ("Where") e sul quando ("When"), trascurando le altre fondamentali domande del loro mestiere, fra cui la più drammatica e angosciante (WHY)?
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Non solo in Francia. Anche in Italia hanno ucciso bambini ebrei solo perché erano bambini ebrei. Anche in Italia, su una nave italiana che è territorio italiano, hanno ucciso un vecchio ebreo in carrozzella, solo perché era un ebreo. Non nell'epoca nera dello sterminio. Non nella pagina più vergognosa della storia italiana. Ma negli ultimi trent'anni. Come in Europa, dove la caccia all'ebreo, l'ebreo come bersaglio da annientare, da schiacciare sotto il peso dell'odio, non ha mai conosciuto requie. Fino all'orrenda strage di Tolosa.
Si tende sempre a non crederci, a non prendere atto della realtà. A non evocare l'antisemitismo come veleno permanente, reso ancora più aggressivo quando si traveste da verbo antisionista. Contro l'ebreo si incontrano tutti gli estremisti, tutti i fanatici, tutti quelli che considerano la democrazia un vizio da sradicare. Quando nel 1982 vennero presi di mira in tutta Europa i cimiteri ebraici, le sinagoghe, le scuole israelitiche, i luoghi di culto degli ebrei, gli eredi del nazismo trovarono convergenze e appoggi tra chi, durante la guerra del Libano, predicava insieme la distruzione dello Stato di Israele e degli ebrei, fisicamente. Fu in quei giorni che in Italia, il 9 ottobre del 1984, un piccolo bambino ebreo, Stefano Gay Taché, venne assassinato da un commando di terroristi mediorientali mentre usciva insieme alla sua famiglia dalla sinagoga Maggiore di Roma per celebrare l'ultimo giorno della festa di Sukkot. Assassinato perché era un ebreo: vittima di un odio assoluto e inestinguibile. E altri bambini ebrei feriti, altri adulti ebrei tra la vita e la morte. Una ferita nella coscienza nazionale che non si è ancora rimarginata. Pochi anni dopo, sull' Achille Lauro , nave italiana, un vecchio signore paralitico di nome Leon Klinghoffer venne ucciso da un commando di terroristi palestinesi. Non stava bombardando Gaza, stava in crociera con sua moglie. Ma doveva essere «punito» perché ebreo. Tutta l'«epopea» di Sigonella che ne seguì, quanto tenne in conto che sul territorio italiano alcuni terroristi avevano trucidato un vecchio ebreo, e quanto venne considerato il fatto che lasciar andar via i terroristi significava lasciare impunito il gesto mostruoso di una banda di antisemiti?
E invece si tende sempre a minimizzare. Se non a giustificare, per carità, almeno a ridimensionare la portata simbolica di un delitto contro gli ebrei. Chiunque sia l'assassino: un fanatico nazi o un fanatico islamista che nella sua guerra santa contro «l'entità sionista» prevede anche il massacro degli ebrei, ovunque si trovino. Quando nel 2006 venne rapito a Parigi un giovane ebreo, Ilan Halimi, la polizia francese si affannava a non dare troppo credito alla pista antisemita. Poi si seppe che Ilan, durante i 24 giorni di prigionia, venne torturato, orrendamente seviziato mentre le sue urla, forse, potevano essere captate nella banlieue a maggioranza musulmana dove l'ostaggio era stato rinchiuso, prima di essere arso vivo e gettato come immondizia lungo la ferrovia. Poi, quando vennero scoperti gli aguzzini e gli assassini, si tenne un processo. E durante il processo il capo della banda, dopo aver iniziato il discorso con «Allah Akbar», definì gli ebrei «nemici da combattere per il bene dell'umanità». Perché la polizia francese non imboccò allora la pista giusta da subito, perché aveva tanta paura nel riconoscere che l'antisemitismo aveva assunto un nuovo volto nel cuore di Parigi e che un giovane ebreo poteva essere sottoposto a sevizie per giorni e giorni nel cuore popoloso della città?
Gli ebrei continuano a essere un bersaglio dell'odio razziale, religioso e politico nell'Europa degli ultimi decenni del Novecento e nei primi del Duemila. Quando negli anni Settanta i terroristi dirottarono l'aereo di linea Parigi-Tel Aviv dell'Air France e atterrarono a Entebbe, nell'Uganda del tiranno Idi Amin Dada, divisero gli ostaggi, dopo averne controllato l'identità e i passaporti, in due colonne: quella su cui si poteva trattare e quella da condannare senza indugi. La colonna senza speranza era composta da ebrei, da condannare perché ebrei. C'erano dei terroristi tedeschi, tra i dirottatori, e un vecchio ebreo mostrò a uno dei figli dei «volenterosi carnefici di Hitler» i numeri che gli avevano tatuato sul braccio nel campo di sterminio. Non ebbero pietà nemmeno di lui, e solo il tempismo del blitz israeliano impedì il massacro di ebrei che si stava preparando con scientifica precisione.
La violenza antisemita, punto di incrocio di deliri ideologici di matrice diversa ma di identica capacità di odio, ha conosciuto una recrudescenza significativa negli ultimi decenni. Con un'opinione pubblica impaurita e sgomenta, mai interamente solidale con gli ebrei colpiti dal fanatismo. Un'altra strage. Un altro massacro. Un'altra invocazione di «mai più». Un'altra volta, l'ennesima, disattesa.

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