sabato 4 agosto 2012

Il declino della "causa palestinese"

Noi europei abbiamo preso un grosso granchio. Ci avevano fatto credere che la radice profonda delle tensioni in Medio Oriente era il conflitto arabo-israeliano; e invece abbiamo assistito all'esplosione della cosiddetta primavera araba, che nelle piazze vedeva gente affamata e desiderosa di benessere e di "western way of life". Niente bandiere israeliane bruciate, se non in seguito, quando i fondamentalisti islamici hanno strumentalizzato le piazze, governando il malcontento e incanalandolo verso un consenso forzato («meglio i fratelli musulmani che Mubarak»).
Ci hanno fatto credere che la cosiddetta "questione palestinese" era di prim'ordine, avvertita da tutti. Complici gli "Accordi di Oslo" del 1993, che hanno generato artificialmente un embrione di stato palestinese, verso il quale sono stati convogliati miliardi di dollari dell'Occidente. Inutilmente, visto che questo fiume di denaro ha accresciuto i conti correnti del regime di Abu Mazen e dei suoi familiari più stretti, senza migliorare granché il tenore di vita dei palestinesi, ancora oggi costretti in luridi campi profughi presso gli stati confinanti, che di abbracciare la causa non hanno la benché minima intenzione.
La conferma giunge dallo stato di collasso finanziario in cui versa l'Autorità Palestinese di Abu Mazen, presidente dell'ANP e leader di Al Fatah, il movimento degnamente ereditato da Arafat, che di ricatti all'occidente se ne intendeva. Si apprende dal Foglio di ieri che l'ANP è schiacciata da un debito di 1500 milioni di dollari, e che occorre mezzo miliardo per far fronte al pagamento degli stipendi della burocrazia pubblica. Di recente Abu Mazen si è recato a Riad, implorando l'aiuto del re Abdullah II, ma non ha ottenuto altro che una mancetta sufficiente per tirare a campare qualche settimana. Il governo israeliano è corso in soccorso anticipando diversi mesi di entrate fiscali che amministra per conto del governo di Ramallah, ma le cifre in questione sono molto più consistenti di un anno di amministrazione finanziaria.
Eloquente la conclusione sconsolata del resoconto del quotidiano romano:

«Abu Mazen si era appellato all’emiro del Qatar, chiedendogli solidarietà per “la causa palestinese” e soprattutto tanti milioni di dollari per rimpinguare le casse vuote. Anche i principi di Doha, però, hanno deluso le attese dell’anziano successore di Yasser Arafat: gli aiuti ci saranno, ma saranno miseri, quasi inutili. Promettono sempre tanto ai fratelli palestinesi, gli emiri e gli sceicchi della penisola araba, ma poi versano sempre meno dollari: 462 milioni nel 2009, 290 nel 2011 e non più di 115 nel 2012. Negli anni di George W. Bush, Washington inviava all’Anp somme variabili tra i 150 e i 500 milioni di dollari, mentre con il democratico Barack Obama gli aiuti sono scesi a soli 50 milioni. Quello che i vertici di Fatah non si sarebbero mai attesi è il gelo dei paesi arabi più ricchi: investono nel calcio europeo, riforniscono di soldi e armi i ribelli libici e cercano un ruolo da protagonisti nella crisi siriana, ma non se la sentono di contribuire alla causa palestinese».

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