A Ramallah ci sono rimasti molto male. Il partito di Abu Mazen, che governa il West Bank anche dopo il 2010, quando avrebbero dovuto tenersi elezioni per il rinnovo delle istituzioni democratiche (Al Fatah teme di perderle a favore di Hamas, e ignora la banale regoletta che vuole il rinnovo dei parlamenti e dei governi ogni 4-5 anni; da queste parti, si sa, le elezioni basta tenerle una volta e per sempre...), ha stigmatizzato la lettera che il ministro degli Esteri di Gerusalemme ha inviato al Quartetto (ONU, USA, Unione Europea e Russia). Nella missiva, Lieberman lamenta lo stallo del processo di pace a causa dell'indecisionismo di Abu Mazen, presidente dell'Autorità Palestinese non rinnovata nelle sue istituzioni democratiche da più di due anni. Il ministro israeliano sottolinea i numerosi casi di vessazioni e maltrattamenti da parte della popolazione palestinese ad opera delle stesse autorità di Ramallah, sempre più risolute a soffocare il malcontento e la critica ad opera di cittadini, giornalisti e blogger.
La corruzione è figlia dell'incancrenimento delle istituzioni democratiche. E' tipico di un governo che diventa regime. E' una muffa inevitabile se il popolo non è chiamato ad esprimere la propria preferenza. Era l'accusa più frequentemente rivolta nei confronti di Arafat e del suo partito (Al Fatah), esautorato nel 2006-2007 dalla Striscia di Gaza; ma a ben vedere è la stessa accusa velatamente mossa nei confronti del movimento estremista islamico che da più di cinque anni governa in solitudine la Striscia, e che esita a tenere nuove elezioni - mentre sollecita l'apertura delle urne in Cisgiordania - nel timore di perdere il potere a favore di organizzazioni ancora più estremiste e rivali.
Si apprende infatti che un recente sondaggio indica nel 70% la percentuale di palestinesi che giudica corrotto il governo di Abu Mazen nel West Bank. Il medesimo sondaggio, condotto a Gaza, rivela che il 57% dei palestinesi condanna il governo di Ismail Haniyeh, salito al potere proprio con un manifesto di condanna della corruzione dei rivali di Al Fatah.
Indagare sul movimento terroristica che governa l'enclave palestinese non è semplice e privo di rischio: Hamas maltratta (è un eufemismo) i giornalisti internazionali che "mettono il naso" negli affari interni. Ma un paio di anni fa - ricorda oggi il Jerusalem Post - un giornale di Al Fatah accusava il primo ministro palestinese di vendere le terre edificabili soltanto al suo clan, di attingere alle casse delle banche commerciali senza troppi scrupoli, mentre il pur amichevole britannico Guardian si indignava per gli acquisti considerevoli di auto di lusso e di lussuose dimore per i gerarchi del movimento islamico. Haaretz, un giornale israeliano che alcuni definiscono "il portavoce locale di Hamas", ricorda che lo scorso anno un alto funzionario è stato allontanato con l'accusa di sottrazione di fondi e di altre attività illecite. Chi osa censurare l'arricchimento dei membri dell'organizzazione è messo in condizioni di tacere: fioccano le denunce - assolutamente mormorate per timore di conseguenze - di minacce, torture e "incidenti stradali" ai danni di chi punta il dito sulla corruzione di Hamas, sull'arricchimento ai danni della povera gente mediante il contrabbando dei combustibili e le attività illecite basate sui tunnel che collegano la Striscia di Gaza all'Egitto. L'Associated Press ricorda il traffico per le strade di Gaza, a causa della fila di Audi, di Porsche e di costosi SUV guidati dai contrabbandieri e dagli speculatori della borsa nera dell'entourage di Hamas. Un soggetto non sospettabile come Sheikh Nabil Naim, leader della Islamic Jihad egiziana, ammonisce: "Hamas è interessata soltanto a contabbandare, a fare soldi, a commerciare, e a far fuori Al Fatah".
H/t: Jerusalem Post.
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