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martedì 20 settembre 2016
Chi decide la capitale di Israele?
Nel 2012 HonestReporting costrinse il Guardian ad una rettifica, successiva ad un articolo in cui si stabiliva che la capitale di Israele non era in effetti Gerusalemme, bensì Tel Aviv. Non si trattò di una semplice svista: quando sollecitati a correggere l'errore, Il Guardian inizialmente si rifiutò, argomentando che Israele era in errore nell'individuare il luogo della propria capitale. In seguito il quotidiano tornò sui propri passi e porse le proprie scuse soltanto di fronte all'eventualità di una citazione in giudizio.
Grazie agli sforzi di HonestReporting la Ofcom - all'epoca l'autorità di vigilanza sulla stampa - modificò le proprie norme mentre Il Guardian aggiornò il manuale operativo usato dai propri giornalisti, che correttamente citano Gerusalemme quando parlano della capitale di Israele.
Qualche giorno fa la repubblica ceca si è piegata alle pressioni di gruppi filopalestinesi, annunciando che i libri di testo distribuiti ai ragazzi avrebbero contemplato lo stesso errore: indicando Tel Aviv come la capitale di Israele. La decisione di lì a breve è stata rivista, dopo una ferma lettera recapitata da Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme.
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mercoledì 29 luglio 2015
L'unico luogo in Medio Oriente dove i cristiani aumentano
di Adam Levick*
Lunedì 27 luglio il Guardian ha pubblicato tre inchieste sulle persecuzioni nel mondo ai danni dei cristiani. Due inchieste - inclusa "Morire di Cristianità", scritta dall'ex corrispondente da Gerusalemme Harriet Sherwood - non fanno menzione di Israele. Tuttavia il terzo reportage, curato da diversi giornalisti fra cui l'attuale corrispondente del Guardian da Gerusalemme Peter Beaumont, include una sezione sulle persecuzioni dei cristiani (sotto forma di vandalismo e attentati incendiari ai danni di chiese e moschee) nello stato ebraico.
Il rapporto include Israele malgrado lo stato non sia incluso nell'elenco dei primi 25 stati dall'atteggiamento anti-cristiano.
Lunedì 27 luglio il Guardian ha pubblicato tre inchieste sulle persecuzioni nel mondo ai danni dei cristiani. Due inchieste - inclusa "Morire di Cristianità", scritta dall'ex corrispondente da Gerusalemme Harriet Sherwood - non fanno menzione di Israele. Tuttavia il terzo reportage, curato da diversi giornalisti fra cui l'attuale corrispondente del Guardian da Gerusalemme Peter Beaumont, include una sezione sulle persecuzioni dei cristiani (sotto forma di vandalismo e attentati incendiari ai danni di chiese e moschee) nello stato ebraico.
Il rapporto include Israele malgrado lo stato non sia incluso nell'elenco dei primi 25 stati dall'atteggiamento anti-cristiano.
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lunedì 2 settembre 2013
La dura battaglia contro la disinformazione
Simpatico botta e risposta fra la redazione del Daily Telegraph, quotidiano britannico che ha la sventura di ospitare la penna di Robert Tait, ex giornalista del Guardian; e CifWatch, organizzazione no-profit impegnata nella lotto contro la disinformazione, la mistificazione, l'omissione in mala fede e non di rado l'invenzione di sana pianta di fatti che inevitabilmente mirano a gettare ombra e discredito su Israele.
Ce ne siamo occupati qualche giorno fa. Nel tentativo di fornire appoggio alla cosiddetta "causa palestinese", il Telegraph ha gonfiato a dismisura il numero di rifugiati e profughi palestinesi; per tali intendendosi non coloro i quali furono persuasi dagli stati arabi belligeranti nel 1948 a lasciare Israele, dietro la promessa che vi sarebbero tornati ben presto a guerra (vinta) conclusa; bensì il numero degli arabi, e di tutta la loro discendenza, che può accedere ai generosi benefici dell'iscrizione all'UNRWA, un'agenzia delle Nazioni Unite che da decenni perpetra se' stessa dietro questo comodo e largo paravento. Si potrà obiettare che in questo momento ci sono emergenze umanitarie che richiederebbero almeno una parte del ricco budget messo a disposizione dell'UNRWA; ma non digrediamo.
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venerdì 28 dicembre 2012
Il Guardian ci casca un'altra volta
Goebbels lo raccomandava: «dite una bugia. Palesatela tante volte, senza pudore e con convinzione. Finirà per divenire una verità». Il ministro della propaganda nazista, artefice della "arianizzazione" della società tedesca, era in errore: per eccesso. Basti vedere come scrive il britannico Guardian (ancora lui): è sufficiente affermare una sola volta una bugia, ed essa è presa per oro colato da un consistente numero di lettori. Specie se la rocambolesca affermazione riguarda gli ebrei, gli israeliani, o una combinazione di entrambi.
Si prenda il blocco di Gaza disposto dal governo di Gerusalemme dopo il sequestro del caporale Gilad Shalit e l'ascesa al potere dei terroristi di Hamas nella Striscia. Per carità, blocco legittimo: l'ha dichiarato persino l'ONU, che certo non è organizzazione tenera nei confronti dello stato ebraico. Ma certo qualche problema lo crea: non a caso per ottenere i rifornimenti di armi e munizioni, i terroristi palestinesi sono costretti ad attendere che i carichi giungano via mare dall'Iran circumnavigando tutta la penisola arabica e attraccando i porti del Sudan, da dove intraprendono una faticosa e polverosa traversata del deserto egiziano.
Si prenda il blocco di Gaza disposto dal governo di Gerusalemme dopo il sequestro del caporale Gilad Shalit e l'ascesa al potere dei terroristi di Hamas nella Striscia. Per carità, blocco legittimo: l'ha dichiarato persino l'ONU, che certo non è organizzazione tenera nei confronti dello stato ebraico. Ma certo qualche problema lo crea: non a caso per ottenere i rifornimenti di armi e munizioni, i terroristi palestinesi sono costretti ad attendere che i carichi giungano via mare dall'Iran circumnavigando tutta la penisola arabica e attraccando i porti del Sudan, da dove intraprendono una faticosa e polverosa traversata del deserto egiziano.
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mercoledì 7 novembre 2012
Un esempio per tutto il Medio Oriente (e non solo)
Il Guardian ci ha abituati a prese di posizione piuttosto rocambolesche, incomprensibili e fuori da ogni logica. Il capolavoro di queste analisi dell'assurdo è la sezione "Comment is free": una specie di speakers' corner, dove buontemponi e ciarlatani sono liberi di esprimere la loro opinione, pur se estrema e fuori dal mondo; il tutto, in nome della libertà di pensiero e di espressione.
Capita così di leggere i deliri di tale Jamal Zahalka, che censura senza appello il patto elettorale stretto di recente fra il partito del primo ministro israeliano (Likud) e quello (Israel Beiteinu) del suo principale alleato, attuale ministro degli esteri dello stato ebraico, in vista delle elezioni generali che si terranno a gennaio. Un cartello elettorale che in nessun altro stato al mondo solleverebbe obiezioni; ma che al signor Zahalka proprio non va giù. Al punto da chiedere addirittura sanzioni e boicottaggi: ancor prima che il nuovo eventuale governo sia formato, e che prenda un qualsiasi provvedimento.
Censura preventiva. L'opposto di quanto auspicherebbe la sezione che ospita il suo intervento. Ma qual è la ragione di tanta acredine?
Jamal Zahalka è un membro della Knesset. Insomma, un parlamentare israeliano. Arabo. Lo si apprende dal suo profilo creato per l'occorrenza sul sito del Guardian. La conferma, sul sito istituzionale della Knesset.
Ora, non importa quante strambe e fuori dal mondo siano le prese di posizione di questo parlamentare, improvvisatosi per l'occasione editorialista malriuscito. L'aspetto rilevante è che la democrazia israeliana è talmente robusta e moderna da dare voce anche a chi ne auspicherebbe la disgregazione. E' il caso di Jamal Zahalka; ma anche per esempio di Haneen Zoabi, il deputato arabo che nel 2010 prese parte alla spedizione della Mavi Marmara; o di Ahmed Tibi, che non perde occasione per esaltare il "martirio" dei terroristi palestinesi. Poco conta che si tratti di apologio di reato, di istigazione al suicidio e all'omicidio; e si può sorvolare sul fatto che questi parlamentari siano liberissimi di incontrarsi con esponenti di organizzazioni terroristiche bandite in tutto il mondo civile.
In un'area dove la repressione diventa sempre più brutale, dove le minoranze sono ostracizzate, minacciate, intimidite e non di rado percosse fino alla morte; in un'area dove la democrazia e la libertà di pensiero sono sempre più a rischio, fa piacere rilevare che esista uno stato - uno solo - dove le libertà individuali sono incoraggiate fin quasi all'autolesionismo. Sarebbe bello apprendere di parlamentari ebrei liberi di manifestare la loro indignazione in Iran; o deputati cristiani sollevarsi contro l'oppressione in Egitto; o esponenti politici di sesso femminile che possano prendere liberamente la parola nel mondo arabo; ma questo fa parte al giorno d'oggi del mondo dei sogni.
H/t: Honest Reporting.
Capita così di leggere i deliri di tale Jamal Zahalka, che censura senza appello il patto elettorale stretto di recente fra il partito del primo ministro israeliano (Likud) e quello (Israel Beiteinu) del suo principale alleato, attuale ministro degli esteri dello stato ebraico, in vista delle elezioni generali che si terranno a gennaio. Un cartello elettorale che in nessun altro stato al mondo solleverebbe obiezioni; ma che al signor Zahalka proprio non va giù. Al punto da chiedere addirittura sanzioni e boicottaggi: ancor prima che il nuovo eventuale governo sia formato, e che prenda un qualsiasi provvedimento.
Censura preventiva. L'opposto di quanto auspicherebbe la sezione che ospita il suo intervento. Ma qual è la ragione di tanta acredine?
Jamal Zahalka è un membro della Knesset. Insomma, un parlamentare israeliano. Arabo. Lo si apprende dal suo profilo creato per l'occorrenza sul sito del Guardian. La conferma, sul sito istituzionale della Knesset.
Ora, non importa quante strambe e fuori dal mondo siano le prese di posizione di questo parlamentare, improvvisatosi per l'occasione editorialista malriuscito. L'aspetto rilevante è che la democrazia israeliana è talmente robusta e moderna da dare voce anche a chi ne auspicherebbe la disgregazione. E' il caso di Jamal Zahalka; ma anche per esempio di Haneen Zoabi, il deputato arabo che nel 2010 prese parte alla spedizione della Mavi Marmara; o di Ahmed Tibi, che non perde occasione per esaltare il "martirio" dei terroristi palestinesi. Poco conta che si tratti di apologio di reato, di istigazione al suicidio e all'omicidio; e si può sorvolare sul fatto che questi parlamentari siano liberissimi di incontrarsi con esponenti di organizzazioni terroristiche bandite in tutto il mondo civile.
In un'area dove la repressione diventa sempre più brutale, dove le minoranze sono ostracizzate, minacciate, intimidite e non di rado percosse fino alla morte; in un'area dove la democrazia e la libertà di pensiero sono sempre più a rischio, fa piacere rilevare che esista uno stato - uno solo - dove le libertà individuali sono incoraggiate fin quasi all'autolesionismo. Sarebbe bello apprendere di parlamentari ebrei liberi di manifestare la loro indignazione in Iran; o deputati cristiani sollevarsi contro l'oppressione in Egitto; o esponenti politici di sesso femminile che possano prendere liberamente la parola nel mondo arabo; ma questo fa parte al giorno d'oggi del mondo dei sogni.
H/t: Honest Reporting.
sabato 29 settembre 2012
Nuovo "epic fail" del Guardian
Malgrado le pesanti perdite (44 milioni di sterline) sopportate nel 2011, e la prospettiva di dolorosi tagli al personale, la linea editoriale del britannico Guardian continua ad essere improntata ad una sistematica distorsione della realtà. Piuttosto che riportare i fatti, il quotidiano fornisce una propria visione, spesso poggiata su fonti parziali e piuttosto discutibili. Vistosa l'emorragia di lettori, ma ciò non sta impedendo di proseguire nella mistificazione della realtà.
L'atteggiamento del Guardian nei confronti della questione mediorientale è esemplare. Il quotidiano progressista non esita a prendere per buone le testimonianze di fonti smaccatamente filopalestinesi, negando alla controparte una replica che metterebbe in luce la discutibilità di quanto riportato. Talvolta però persone di buona volontà impongono una revisione dei contenuti, a cui segue la sofferta smentita.
Di recente il Guardian è stato costretto a chiarire un articolo dello scorso maggio, in cui sosteneva che l'equipaggio a bordo della Mavi Marmara, l'imbarcazione dell Freedom Flotilla (armata dall'IHH, un'organizzazione turca vicina all'ISM, a sua volta con profondi legami con i terroristi di Hamas) era disarmato, quando fu raggiunto dalle forze di sicurezza israeliane che intendevano impedire il tentativo di forzatura del blocco navale al largo delle coste di Gaza. Un blocco pienamente legittimo, secondo il diritto internazionale.
La commissione Palmer, istituita dalle Nazioni Unite, ha appurato che l'equipaggio a bordo della Mavi Marmara era in effetti armato di coltelli, bastoni metallici, catene e fionde. Filmati, diffusi dall'esercito israeliano, mostravano i militanti colpire violentemente i soldati israeliani una volta che questi salirono a bordo della Mavi Marmara. Ma queste evidenze furono taciute a maggio dal Guardian, che si è visto citare in giudizio da un lettore, assistito da una associazione americana per i diritti civili, la quale ha fatto appello al Press Complaints Commission, l'autorità britannica di controllo dell'operato equo della stampa.
La PCC ha riconosciuto che l'articolo in questione era "impreciso e fuorviante", evidenziando come non corrispondesse a realtà l'affermazione secondo cui i passeggeri della Mavi Marmara fossero disarmati: una affermazione che induceva il lettore a trarre conclusioni errate sull'andamento dei fatti. Il Guardian è stato così costretto a pubblicare una rettifica nella versione online del quotidiano.
Trattasi dello stesso quotidiano che di recente è stato colto in errore, quando ha indicato in Tel Aviv la capitale di Israele, salvo in seguito ritornare sui propri passi con analoghe modalità.
L'atteggiamento del Guardian nei confronti della questione mediorientale è esemplare. Il quotidiano progressista non esita a prendere per buone le testimonianze di fonti smaccatamente filopalestinesi, negando alla controparte una replica che metterebbe in luce la discutibilità di quanto riportato. Talvolta però persone di buona volontà impongono una revisione dei contenuti, a cui segue la sofferta smentita.
Di recente il Guardian è stato costretto a chiarire un articolo dello scorso maggio, in cui sosteneva che l'equipaggio a bordo della Mavi Marmara, l'imbarcazione dell Freedom Flotilla (armata dall'IHH, un'organizzazione turca vicina all'ISM, a sua volta con profondi legami con i terroristi di Hamas) era disarmato, quando fu raggiunto dalle forze di sicurezza israeliane che intendevano impedire il tentativo di forzatura del blocco navale al largo delle coste di Gaza. Un blocco pienamente legittimo, secondo il diritto internazionale.
La commissione Palmer, istituita dalle Nazioni Unite, ha appurato che l'equipaggio a bordo della Mavi Marmara era in effetti armato di coltelli, bastoni metallici, catene e fionde. Filmati, diffusi dall'esercito israeliano, mostravano i militanti colpire violentemente i soldati israeliani una volta che questi salirono a bordo della Mavi Marmara. Ma queste evidenze furono taciute a maggio dal Guardian, che si è visto citare in giudizio da un lettore, assistito da una associazione americana per i diritti civili, la quale ha fatto appello al Press Complaints Commission, l'autorità britannica di controllo dell'operato equo della stampa.
La PCC ha riconosciuto che l'articolo in questione era "impreciso e fuorviante", evidenziando come non corrispondesse a realtà l'affermazione secondo cui i passeggeri della Mavi Marmara fossero disarmati: una affermazione che induceva il lettore a trarre conclusioni errate sull'andamento dei fatti. Il Guardian è stato così costretto a pubblicare una rettifica nella versione online del quotidiano.
Trattasi dello stesso quotidiano che di recente è stato colto in errore, quando ha indicato in Tel Aviv la capitale di Israele, salvo in seguito ritornare sui propri passi con analoghe modalità.
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martedì 22 marzo 2011
MONA: come tutto ebbe inizio

Spettacolare ricostruzione temporale degli eventi degli ultimi tre mesi in Medio Oriente - Nord Africa:
The Path of Protest
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