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lunedì 2 gennaio 2017

La Risoluzione 2334 affossa le prospettive di uno stato palestinese

di Moshe Dann*

Aspramente criticata da Israele e da più parti, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU (UNSC) 2334 è stata giudicata una pugnalata alla schiena. È una pugnalata; ma al petto. Oltretutto, vista l'ostilità dell'amministrazione Obama e dei membri del Consiglio di Sicurezza, era prevedibile e inevitabile. Ironia della sorte, però, la risoluzione getta le basi per una legittima annessione di Giudea e Samaria da parte di Gerusalemme.
La risoluzione infatti stravolge le regole del gioco: di fatto, abroga il Trattato di Oslo del 1993 e gli accordi interinali del 1995, che divisero Giudea e Samaria in area A e B, sotto il controllo dell'Autorità Palestinese; e area C, in cui sotto il controllo israeliano era prevista la possibilità di insediamento di comunità ebraiche. La questione degli insediamenti era demandata ad accordi fra le parti contendenti, assieme alla questione del "ritorno" dei discendenti dei profughi arabi che lasciarono Israele nel 1948, nonché allo status di Gerusalemme. Ma imponendo uno stato arabo palestinese senza precedenti negoziati bilaterali come fatto compiuto, e dichiarando unilateralmente gli insediamenti illegali, la Risoluzione 2334 ha spazzato via tutte le precedenti intese formali.

sabato 1 ottobre 2016

Gli strafalcioni dell'Ufficio Stampa della Casa Bianca

L'Ufficio Stampa della Casa Bianca nelle ultime ore ha suscitato l'ilarità globale per un paio di uscite diciamo così "infelici". Sarà il clima da fine anno scolastico che si respira a Washington, sarà un brutto scherzo giocato dall'emozione per la scomparsa di uno statista di rilevanza storica come Shimon Peres; sta di fatto che i collaboratori di Obama hanno sommato errori ad errori.
Prima, hanno spedito il povero Obama a Tel Aviv, in compagnia dell'intera delegazione americana. Per fortuna la capitale israeliana dista una sessantina di chilometri, per cui non sarà stato difficile raggiungere il Monte Herzl per commemorare la scomparsa di Shimon Peres. Eppure, secondo la segreteria dell'Office of the Press, Barack Obama avrebbe dovuto partecipare ad un funerale a Tel Aviv...

sabato 30 gennaio 2016

Con amici così, chi ha bisogno di nemici?


Nel giorno della commemorazione dell'Olocausto, ha fatto notizia la visita del presidente Obama all'ambasciata israeliana a Washington. Obama ha riconosciuto l'avanzata globale dell'antisemitismo e ha dichiarato solenne: «siamo tutti ebrei». Una dichiarazione forte, importante, che di solito si pronuncia dopo una carneficina; come fummo tutti americani dopo l'11 settembre, o tutti francesi dopo l'attentato a Charlie Hebdo.
Peccato che alle dichiarazioni di principio, seguano fatti che vadano in direzione opposta. Due episodi sono rivelatori dell'atteggiamento ipocrita delle autorità, pronte a compiangere gli ebrei morti, e al contempo ad ignorare la minaccia arrecata a quelli vivi.
Ieri mattina è stato rivelato un programma segreto di monitoraggio dell'attività dei droni israeliani da parte dei servizi segreti britannici ed americani. L'intrusione non autorizzata nell'architettura informatica degli aerei senza pilota di Gerusalemme, veniva condotta dalle basi militari a Cipro, e puntava a conoscere anzitempo le operazioni militari a Gaza, i propositi di attacco all'Iran, e a sorvegliare una tecnologia abbastanza raffinata da essere esportata nel resto del mondo.
Il governo di Gerusalemme si è dichiarato «amareggiato ma non sorpreso». Sono cose che si fanno, fra governi amici. Il monitoraggio delle attività militari di uno stato sovrano è sempre esistito, indigna ma non costituisce uno scoop.

mercoledì 5 agosto 2015

Obama parteggia per i palestinesi (sai che notizia...)

L'amministrazione USA tranquillizza sbrigativamente gli israeliani: l'accordo sottoscritto con l'Iran non costituirà il prologo di un Olocausto nucleare. Facile a dirsi, con l'ayatollah Khamenei che un giorno sì e l'altro pure si affanna a caldeggiare la rimozione dello stato ebraico dalla mappa geografica; e nel momento in cui un alto esponente del Pentagono precisa che è virtualmente impossibile assicurare che Gerusalemme non sia bersaglio di attacco atomico: a meno che si schierino sul territorio diecine di migliaia di soldati americani.
La triste verità è che la presidenza Obama si è schierata a favore del mondo arabo: un po' confusamente, avendo prima sostenuto la confessione sunnita (Fratelli Musulmani; ma ci si è messo di mezzo il generale al-Sisi), e ora quella sciita. Ma i palestinesi devono essergli rimasti nel cuore, se è vero che il presidente americano - la cui boria arriva al punto di pronosticare un nuovo successo nelle urne, qualora si presentasse clamorosamente per un terzo mandato - sacrifica i suoi stessi concittadini.

mercoledì 18 marzo 2015

Il ruolo dell'Autorità Palestinese nel successo di Netanyahu

di Alan M. Dershowitz*

Chi in questo momento è contrariato per l'affermazione elettorale del primo ministro Benjamin Netanyahu su Campo Sionista, dovrebbe attribuire buona parte del merito della svolta a destra di Israele ai legittimi responsabili: l'Autorità Palestinese (AP).
Israele ha offerto ai palestinesi almeno due volte, negli ultimi quindici anni, straordinarie condizioni per pervenire alla soluzione dei "due stati". La prima volta nel 2000-2001, quando Ehud Barack e Bill Clinton offrirono ai palestinesi più del 90% del West Bank e l'intera Striscia di Gaza, con Gerusalemme capitale (dello stato palestinese, NdT). Yasser Arafat response l'offerta e avviò la Seconda Intifada, che provocò 4000 vittime. Questa ferita autoinflitta dal capo dell'AP contribuì in modo significativo all'indebolimento dello schieramento pacifista israeliano, e in modo particolare del Labor Party di Barak. La coalizione che ha sfidato il Likud, emanazione di questo Labor Party, ha continuato a soffrire di questa sindrome.
Di nuovo nel 2007. Ehud Olmer offrì ai palestinesi una soluzione ancora più generosa, alla quale Mahmoud Abbas fallì nel corrispondere. Questa debacle contribuì ancora di più all'indebolimento dello schieramento progressista in Israele, e al rafforzamento della Destra.

mercoledì 29 ottobre 2014

Le bizzarre preferenze del presidente Obama

Strana creazione, la democrazia. Un abito che si indossa in svariati modi, a seconda delle latitudini e delle stagioni. Due anni fa il presidente Obama, temendo per la sua rielezione, esortò il governo israeliano a desistere dal fermo proposito di garantire l'incolumità della sua popolazione colpendo le installazioni nucleari iraniane. Sarebbe stato un intervento risolutivo e già sperimentato con successo nel passato (Operazione Babilonia 1981); ma l'ex senatore junior dell'Illinois, già allora in calo di consensi, preferì non aprire uno nuovo spinoso fronte di politica estera, e riuscì a dissuadere il governo di Gerusalemme - con cui non è mai andato d'accordo - promettendo un intervento successivo. Puntualmente giunto: oggi Washington è sempre più alleato; del regime di Teheran, di cui di fatto garantisce la continuazione del programma di arricchimento dell'uranio.
Non soddisfatto di questo colpo basso, un alto esponente dell'amministrazione Obama ha trovato il modo di definire Netanyahu una "merda di gallina" (chickenshit), espressione alquanto sgradevole per definire una persona codarda e priva di attributi maschili. Il riferimento è sempre all'Iran, che ormai avrebbe collocato i propri impianti sufficientemente al riparo dai strike a sorpresa israeliani. Beffarda la dichiarazione fornita: «È troppo tardi per fare qualunque cosa. Due, tre anni fa, si poteva agire. Ma in ultima analisi, non era capace (Netanyahu, NdR) di prendere provvedimenti. È stata una combinazione del nostro intervento e della sua incapacità di assumere decisioni drammatiche. Adesso è troppo tardi».

giovedì 5 giugno 2014

Vecchie e nuove alleanze in Medio Oriente

Il presidente Obama ha completato una traiettoria tanto rocambolesca quanto sciagurata: lontani dai proclami tipo "Noi non trattiamo con i terroristi", gli Stati Uniti prima hanno stretto accordi con i talebani, che custodivano gelosamente una personcina mite e pacifica come Osama Bin Laden; poi hanno benedetto il governo palestinese al cui interno siedono i terroristi di Hamas; e ora stringono rapporti con Hezbollah, la formazione terroristica sciita che di fatto comanda in Libano. Nel durante, hanno trovato il modo di imprecare contro la defenestrazione dei fratelli musulmani in Egitto, di annullare l'ordine di evacuazione del regime sanguinario di Assad in Siria, e di benedire la corsa al Nucleare in Iran.
La visita di Kerry a Beirut - la prima, in cinque anni - ha cementato il nuovo corso, che possiamo sintetizzare in "Noi trattiamo solo con i terroristi". Il segretario di Stato americano si è affrettato a precisare che il governo USA monitorerà ogni giorno l'operato del nuovo governo palestinese onde assicurarsi che "non oltrepassi la linea": un'affermazione che ha probabilmente suscitato l'ilarità di presenti e assenti; memori della famosa "linea rossa" da tempo varcata dal sanguinario Assad in Siria.

domenica 6 aprile 2014

Abbattuto il processo di pace, Abu Mazen tenta il bluff. Ma ci casca solo Kerry...

Benché manchino ancora alcune settimane alla data che sancirà la conclusione dei negoziati fra israeliani e palestinesi - sponda Washington; nessuno crede davvero che il processo di pace possa mai (ri)partire, dopo l'affondamento provocato da Abu Mazen con la decisione di iscrivere l'ANP ad una serie di organismi e trattati internazionali, disattendendo i pre-accordi concordati lo scorso luglio prima di questa ennesima occasione per perdere tempo, e per dis-perdere anidride carbonica nell'atmosfera. Al povero Kerry, frustrato, e smanioso più di apparire finalmente come qualcosa di più del "marito della signora Heinz", che di realmente conseguire un Premio Nobel per la Pace in verità sbiadito da qualche anno; non resta che fare marcia indietro evitando ulteriori figuracce. Mancando anche l'obiettivo minimo di una "pace in Medio Oriente" a cui alla vigilia non credeva nessuno che conosce un pochino le faccende che ruotano attorno al Fiume Giordano. È un nuovo smacco per l'amministrazione Obama - ma questa volta il più scaltro Barack Hussein ha mantenuto una posizione defilata, evitando un diretto coinvolgimento che avrebbe appannato ulteriormente il suo prestigio: dopo il discorso del Cairo che ha aperto le porte al fondamentalismo islamico in Egitto (peraltro mai seriamente aberrato da Obama, il quale al contrario ha reagito con stizza alla defenestrazione di Morsi; e sì che vanta rapporti perlomeno indiretti con l'estremismo sunnita); dopo aver assistito impotente a diversi quanto beffardi varchi della mitica "linea rossa" a Damasco, dove Assad è stato libero di continuare a sterminare i siriani dopo aver "visto" il bluff della Casa Bianca; dopo aver accantonato la linea dura con Teheran, concedendo agli ayatollah la prerogativa di coltivare l'ambizione atomica, coniugando quella massima della diplomazia secondo cui "se non puoi combatterli, unisciti a loro" (ed infatti la Boing è stata autorizzata a vendere parti di ricambio per aerei all'Iran, dietro la vaga garanzia di non impiegarli per finalità militari); dopo aver dovuto prendere atto passivamente dell'annessione della Crimea da parte della Russia di Putin, sfibrando nel frattempo solide alleanze con l'Arabia Saudita, l'Egitto e lo stesso Israele; alla fine la montagna-USA ha cercato di partire il topolino di una "storica" pace fra Israele e palestinesi, dal sapore più simbolico che reale (in Siria sono morti in tre anni il quadruplo di tutti gli arabi periti nei conflitti con Israele dal 1948 in poi), non riuscendo a conseguire nemmeno questo obiettivo minimo.

sabato 8 febbraio 2014

Le discutibili frequentazioni di Obama

Malcelato imbarazzo alla Casa Bianca per le rivelazioni della stampa sulla condotta del fratello presidenziale. Malik Obama è stato immortalato qualche anno fa ad una conferenza, dove indossava una kefya con le insegne di Hamas, con su impressa evidenti slogan anti-israeliani, del tipo «Gerusalemme è nostra», «Stiamo arrivando», oppure «Dalla terra al mare», con i quali si negherebbe legittimità allo stato ebraico. Le foto apparvero sul sito della fondazione intitolata a Barack Hussein Obama, che il fratello dalle deplorevoli simpatie ha fondato e tuttora gestisce.
Il sito di Walid Shoebat oggi rivela che un giornale arabo a suo tempo promosse la conferenza, indicando fra i partecipanti tale Bülent Yildirim, comandante della Freedom Flotilla che nello stesso anno avrebbe tentato l'incursione a Gaza, prima di essere intercettata dalla marina israeliana al largo delle coste dell'enclave palestinese. Quello scontro avrebbe prodotto morti e feriti, un "incidente" diplomatico fra Israele e Turchia, e un lungo contenzioso risolto prima con una telefonata chiarificatrice del governo di Gerusalemme ad Erdogan, con tanto di scuse (sollecitate forzatamente dallo stesso Obama); ed, infine, a breve, un discutibile indenizzo si dice di 20 milioni di dollari.

mercoledì 27 novembre 2013

L'opzione è stata collocata sul tavolo

E meno male che si parlano da almeno un anno. Certo, non in pubblico, e non direttamente. La comunicazione in Oman deve essere risultata problematica, se è vero che la sottoscrizione degli accordi "provvisori" di Ginevra è stata seguita da toni trionfali da ambo le parti. Insomma, una situazione "win-win". Eppure ci deve essere qualcuno che perde...
Mentre Hussein Obama cerca di tranquillizzare l'opinione pubblica mondiale, spacciando la liberazione di sostanziosi flussi finanziari verso il regime degli ayatollah in cambio di generiche promesse per un passo significativo verso la pace; a Teheran il ritorno dei delegati è stato salutato trionfalmente: un po' perché viene riconosciuta la piena legittimità del programma nucleare iraniano; un po' perché le nuove entrate che arriveranno dagli acquisti di petrolio da parte soprattutto di Cina, India, Giappone e Corea del Sud, daranno una grossa mano ad uno stato sociale messo in crisi da quotazioni del greggio stabilmente sotto i 100 dollari per barile.

domenica 24 novembre 2013

Finalmente l'Iran diventerà una potenza atomica

Dunque è ufficiale: gli Stati Uniti di Hussein Obama infliggono al mondo un'ulteriore dolorosa automutilazione, accettando il programma di arricchimento dell'uranio della repubblica iraniana, e in premio offriranno agli ayatollah alcuni miliardi di dollari all'anno, mediante allentamento delle sanzioni esistenti e sblocco delle entrate congelate in alcune banche europee. L'ex senatore junior dell'Illinois, esemplare emulo di Chamberlain - il 30 settembre 1938 non è così lontano... - si appresta così a vincere un secondo premio Nobel per la pace; magari, questa volta ex aequo con il suo sodale Hassan Rowhani, che da Teheran ha benedetto l'intesa.
Un'intesa maturata per lungo tempo: non certo dal giorno successivo all'elezione del successore del rude e irritante Ahmadinejad: come ha rilevato il Times of Israel, che cita la Associated Press, fra Stati Uniti e Iran i colloqui sono andati avanti a livello diplomatico per tutti gli ultimi dodici mesi; almeno da marzo, per il tramite del vice segretatio di Stato William Burns (nomen omen). Il bonario Rowhani è stata la figura tranquillizante scelta da Ali Khamenei per far accettare all'opinione pubblica mondiale un'intesa apparsa fino a qualche tempo fa il frutto di una maggiore moderazione del regime persiano. Il desiderio degli Stati Uniti di assecondare le aspirazioni e le ambizioni dell'Iran a divenire potenza atomica - malgrado le ripetute violazioni dei diritti umani, la repressione della dissidenza e delle minoranze, gli imbrogli ai danni della comunità internazionale, il sostegno al terrorismo internazionale e l'appoggio al regime sanguinario di Assad in Siria - è arrivato al punto da salutare con soddisfazione la sconfitta subita ieri dalla nazionale a stelle e strisce di volley a Tokyo - guarda caso - proprio contro l'Iran...

sabato 19 ottobre 2013

Il Pentagono consegna finalmente le bombe buster. All'Arabia!

Israele è l'unico alleato rimasto agli Stati Uniti nel Vicino e Medio Oriente. Ciò non toglie che l'amministrazione Obama faccia di tutto per ostacolare, eclissare e indebolire lo stato ebraico. Costringendolo a subire l'improponibile agenda di pace di Ramallah, a "chiedere scusa" alla Turchia per l'incidente della Freedom Flotilla del 2011 (anche se un retroscena recentemente rivelato, permette di mettere sotto diversa luce l'apparente genuflessione di Netanyahu nei confronti di Erdogan), e addirittura a percorrere nuove strade diplomatiche: come l'inedita intesa con l'Arabia Saudita, preoccupata al pari di Gerusalemme - con la quale non sono in essere rapporti diplomatici ufficiali - della corsa all'armamento nucleare da parte dell'Iran di Rohani e (soprattutto e tutti) Alì Khamenei.
Ma Obama sa pesare i suoi alleati, e misurare le loro rivendicazioni. Così, mentre Washington ha frenato le preoccupazioni israeliane circa le aspirazioni atomiche di Teheran, bloccando la ventilata iniziativa dello scorso anno volta a distruggere gli impianti di arricchimento dell'uranio, quando era ancora possibile (Obama correva per la rielezione, e temeva di risultare penalizzato da una incursione salvavita di questo fastidioso alleato orientale); il prode presidente americano è stato invece lesto a tentare di riguadagnare le simpatie e la fiducia delle monarchie del Golfo.

martedì 10 settembre 2013

Obama in Medio Oriente è tenuto in grande considerazione...

Da destra a sinistra: Obama: «L'impiego di armi chimiche è la nostra linea rossa».
(in seguito) «L'impiego di armi nucleari è la nostra linea rossa».

domenica 17 marzo 2013

Gli israeliani godono di grande simpatia (in America)

Mentre si approssima la prima storica visita di Obama in Israele, un sondaggio condotto di recente da Gallup evidenzia il raggiungimento di un nuovo massimo assoluto nei livelli di simpatia del popolo americano nei confronti dello stato ebraico. Il perenne conflitto arabo-israeliano è definito in termini netti dai residenti negli Stati Uniti: il 64% dei quali appoggia le posizioni di Gerusalemme, mentre soltanto il 12% parteggia per i palestinesi.

venerdì 15 marzo 2013

Un'agenda per l'Obama mediorientale

Il presidente rieletto degli Stati Uniti tranquillizza l'opinione pubblica mondiale, poco prima di volare in Israele: «non vi preoccupate, sappiamo che l'Iran sta lavorando alla bomba atomica, e che l'otterrà entro un anno. E faremo di tutto per evitarlo». Questo il succo del discorso di Obama, che trova il tempo per cenare con la nuova Miss Israele, la splendida Yityish Aynaw, di origine etiope (l'apartheid non è di casa, nello stato ebraico); ma non trova il tempo di rendere visita alla Knesset, il parlamento di Gerusalemme.
I rapporti fra Obama e Israele non sono mai stati idilliaci, tutt'altro. E la riconferma a fatica a Primo Ministro da parte di Benjamin Netanyahu deve essere costata non poca irritazione al presidente americano, che in cuor suo sperava in un ridimensionamento più drastico.

domenica 10 febbraio 2013

Abu Mazen: chiedere molto per chiedere niente

Tutti sanno che uno stato palestinese avrebbe potuto sorgere nel 1947, quando l'assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la partizione del mandato britannico palestinese in due stati indipendenti: uno ebraico, l'altro arabo. Gli ebrei accettarono, e a maggio dell'anno successivo fu proclamato lo stato d'Israele. Gli arabi rifiutarono, indotti in tal senso dagli stati confinanti, e poco dopo la nascita del nuovo stato ebraico gli mossero guerra, dando luogo alla tragedia di un popolo che si trascina tutt'oggi, facendo la felicità della stessa burocrazia onusiana, che - soltanto a livello di UNRWA - occupa 25000 persone, e dispone di un budget annuale di 1230 milioni di dollari.
Uno stato autonomo palestinese poteva nascere anche prima della Seconda Guerra Mondiale, quando la tragedia dell'Olocausto poteva essere prevista dal crescente antisemitismo, ma era lungi dall'essersi manifestata. Nel 1937 il movimento sionista accettò - mentre il Gran Muftì di Gerusalemme, il nazi-islamico Haj Al Husseini respinse - una proposta di pace in base alla quale lo stato ebraico avrebbe dovuto estendersi su appena il 20% del territorio mandatario britannico, e perdipiù avrebbe dovuto versare allo stato arabo una sovvenzione annuale. Una proposta ancora più vantaggiosa fu formulata nel 1939, quando si ventilò la possibilità di uno stato unico per arabi ed ebrei; ma anche allora il Gran Muftì e il Consiglio Supremo arabo rifiutarono.

giovedì 20 settembre 2012

Degli iraniani ci si può fidare

Fereydoun Abbasi-Davani, il responsabile del progetto "bomba atomica" di Teheran, ha ammesso che le informazioni fornite all'AIEA circa il programma atomico iraniano erano false. Ci ha creduto El Baradei, l'ex direttore egiziano che per anni ha tranquillizzato il mondo circa la natura pacifica della corsa al Nucleare da parte degli ayatollah; non ci hanno creduto le persone dotate di un minimo di sostanza grigia.
La dichiarazione è stata rilasciata al quotidiano arabo stampato a Londra "al-Hayat", e riportata da Debka. Il capo del progetto nucleare iraniano ha riconosciuto che spesso le informazioni fornite hanno fatto sembrare la repubblica islamica indietro nella corsa all'ordigno nucleare, per guadagnare tempo nella difesa degli impianti e nell'accrescimento dell'uranio.
24 ore fa un'altra dichiarazione ha fatto il giro del mondo: il presidente russo Putin ha ammesso di apprezzare di più il candidato repubblicano alla Casa Bianca Mitt Romney che l'attale presidente: «almeno lui non le manda a dire», è stato il tenore della riflessione. Rincrescimento prevedibile da parte di Obama. E dire che a marzo il presidente in carica aveva assicurato al presidente russo Medvedev carta bianca circa le installazioni nucleari sovietiche russe puntate contro l'Europa: «potrete schierare i vostri missili contro tutta l'Europa, una volta superate le elezioni di novembre».

giovedì 2 agosto 2012

Chi è più razzista: Romney o Obama?

di Noah Pollak*

La stampa si sta dilettando oggi nell'amplificare le recriminazioni del "negoziatore" palestinese Saeb Ereikat, secondo cui le affermazioni rese da Mitt Romney ieri a Gerusalemme sarebbero «razziste». Commentando il sorprendente miracolo economico israeliano, Romney ha semplicemente sottolineato come le differenze culturali abbiano prodotti diverse performance economiche.
Per usare le parole di Romney: «quando si arriva qui e si osserva per esempio il PIL pro-capite di Israele, pari a circa 21 mila dollari, e lo si confronta con il PIL pc delle aree amministrate dall'Autorità Palestinese, pari all'incirca a 10 mila dollari annui, si nota un contrasto stridente nella vitalità economica. Questo si verifica anche in altri paesi fra loro confinanti: Cile ed Ecuador, Messico e Stati Uniti. Un libro scritto da David Landes, un ex professore alla Harvard University, dal titolo "La ricchezza e la povertà delle nazioni", suggerisce che se si può apprendere qualcosa dalla storia economica del mondo, è che la cultura fa la differenza. Quando vengo qui e ammiro le città e le conquiste del popolo di questa nazione, riconosco la forza della cultura e di altri fattori».

L'aspetto divertente è che c'é un altro candidato alla presidenza che ha fatto affermazioni simili alcuni anni fa. Questo candidato è l'attuale presidente, Barack Obama. Nel suo famoso "discorso del Cairo" del 2009, così affermò: «tutti noi dobbiamo riconoscere che l'istruzione e l'innovazione saranno la moneta del 21esimo secolo, e in troppi stati musulmani, su questo fronte si denuncia un ritardo». In seguito ha affermato: «una donna a cui è negata l'istruzione è una donna a cui è negata l'eguaglianza; e non è un caso che i paesi in cui le donne sono più istruite sono quelli più prosperi». E ha aggiunto: «una profonda e ferma convinzione che tutti i popoli aspirino a determinate cose: alla capacità di esprimere il proprio pensiero e avere un'opinione sul proprio governo, la fiducia nello stato di diritto e in un equa amministrazione della giustizia; un governo trasparente e leale con il popolo; la libertà di vivere la vita che si è scelta. I governi che garantiscono questi principi sono alla fine più stabili, più efficaci e più sicuri».

Due anni dopo, in un altro discorso, ha affermato «in quest'area (Medio Oriente, NdT) molti giovani hanno una solida istruzione, ma la chiusura delle rispettive economie li rendi privi di lavoro. Gli imprenditori sono ricchi di idee, ma la corruzione impedisce che esse generino profitto».
Probabilmente Obama ha letto lo stesso libro di David Landes citato da Romney, in cui in effetti si discute dell'importanza di un'economia in salute per l'emancipazione delle donne. Perché pensiamo questo? perché è lo stesso Obama ad affermare «la storia insegna che i paesi più prosperi e più in pace sono quelli in cui le donne hanno un ruolo attivo. Questa regione non raggiungerà mai il suo massimo potenziale fino a quando più della metà della popolazione è prevenuta dal raggiungere il pieno potenziale».

Alla luce di queste riflessioni, si conclude che Obama sia stato ben più critico della società araba di Romney. E non è razzista il rilevarlo...


* Articolo apparso su The Weekly Standard del 31 luglio 2012.

lunedì 5 marzo 2012

La storia dei rapporti fra Obama e Israele

«L'Iran non avrà l'atomica», sentenzia con scarsa convinzione Obama, rivolgendosi alla platea dell'AIPAC, l'associazione pro-Israele d'America. Ma, in fondo, perché non credergli? in fondo nel 2008 ha già affermato che

- «Israel security is sacrosanct and non-negotiable, with secure, defensible borders»; che non sono certo le linee armistiziali del 1949 (ribattezzate erroneamente "confini del 1967"), ma le linee successive alla Guerra dei Sei Giorni;

- «Gerusalemme è la capitale di Israele», senza accennare ad uno status analogo per i quartieri orientali, su cui gli arabi vorrebbero mettere le mani (presumibilmente, per ritrasformarli in un pisciatoio, come erano prima del 1967, quando Gerusalemme era occupata dalla Giordania).

Poi dopo tre anni, nel 2011, ha cambiato idea. Per opportunismo? mah!... per fortuna che nuove elezioni incombono, e si può indossare la maschera dell'"amico di Israele" di fronte alla platea dell'AIPAC...



Questo interessante video di trenta minuti traccia un riassunto completo delle relazioni fra il presidente americano e lo stato ebraico: sin da quando Obama ha visitato tutte le capitali del Medio Oriente, evitando accuratamente Gerusalemme, senza mancare di blandire le dittature arabe, trascurando la concreta minaccia apportata alla sovravvivenza di Israele. Fino a recitare il ritornello dell'attività edile israeliana nei territori contesti, come "causa" del deragliamento del processo di pace, ignorando i continui inviti in tal senso rivolti dal governo Nethanyahu alla leadership "moderata" palestinese per tutto il 2010; inviti caduti inascoltati malgrado la volenterosa moratoria di dieci mesi sugli insediamenti. E fino a cadere nel grossolano errore di ritenere la nascita dello stato di Israele un indennizzo alla tragedia dell'Olocausto subita dagli ebrei; quando l'intera regione è stata popolata da ebrei almeno mille anni prima dell'avvento di Cristo; senza considerare il contenuto della Conferenza di Sanremo del 1920, che assegnava al Regno Unito un mandato in "Palestina", dove sulle ceneri della disgregazione dell'impero ottomano sarebbe sorto lo stato ebraico, su confini ben più ampi di quelli attuali.
Nel video si evidenzia l'ossessione per lo stop dell'espansione edilizia, senza che Obama mai posto l'accento sulle nefandezze del regime palestinese: dalla glorificazione dei terroristi suicidi, all'insegnamento dell'odio e del disprezzo degli ebrei sin dalle scuole materne; dalla negazione dello stato di Israele sotto qualunque confine al silenzio di fronte alla celebrazione, da parte di Abu Mazen, di un terrorista responsabile dell'uccisione di 37 cittadini israeliani.

Obama si rivolge dunque all'AIPAC, con il sorriso sulle labbra e con la mano al portafoglio dei partecipanti, dimentico del trattamento irriguardoso usato nei confronti dell'"alleato" (è ancora tale?) del Vicino Oriente. Come quando ha giudicato un "insulto" l'approvazione da parte del comune di Gerusalemme di un progetto edilizio su un territorio non conteso ne' mai rivendicato dai palestinesi; sempre nel tentativo di dimostrare alla parte araba che sa usare il pugno duro - e non esita a farlo - nei confronti di Israele. O come quando ha fatto entrare il premier israeliano Nethanyahu, in visita ufficiale a Washington, da un ingresso secondario e non da quello principale, come si conviene nei confronti di un capo di governo di una nazione con cui non si è in guerra; facendolo attendere per più di un'ora, e lasciandolo all'improvviso per riunirsi a cena con la sua famiglia. Qualche giorno dopo Obama ospitava Abu Mazen, accolto con tutti gli onori, e congedato con un assegno da 70 milioni di dollari.
Queste "frizioni" nei confronti di un alleato storico devono essere suonate come una approvazione preventiva di iniziative di disturbo, se non proprio ostili, da parte dei paesi arabi confinanti. Come quando a metà 2010 un'organizzazione turca, affiliata ad Al Qaeda, organizzò una spedizione diretta a Gaza con l'intento di violare l'embargo marittimo legittimamente posto per impedire la consegna di armi e munizioni ai terroristi di Hamas. Dopo la condanna iniziale, la successiva conoscenza dei fatti evidenziò la natura bellicosa dell'iniziativa, scagionò l'operato dell'esercito israeliano, ma non prima di aver gettato una buona dose di immeritato discredito. Obama, ancora una volta, si scagliò contro Israele, e dalla parte della prevaricazione e del terrorismo, confermando la sua "amicizia" nei confronti del turco Erdogan.
E siamo allo scorso anno, quando Obama, per ingraziarsi le piazze arabe in rivolta, annunciò l'orientamento americano verso un riconoscimento dei confini di Israele antecedenti alla Guerra dei Sei Giorni: una ipotesi assurda, che comporterebbe la rinuncia alla difesa dalle aggressioni esterne; che ci sono, da tutti i punti cardinali. Una ennesima pugnalata nei confronti del popolo israeliano e del suo leader, che giusto in quelle ore stava atterrando ancora una volta negli Stati Uniti alla ricerca di una chiarificazione. Una esternazione dal sapore dell'imposizione, che in quei giorni conobbe la ferma condanna dallo stesso entourage democratico, imbarazzato per la sortita del Presidente.
Ma Obama non demorde, e più avanti sembra avallare la scelta di Abu Mazen di rivolgersi direttamente alle Nazioni Unite per ottenere il riconoscimento di uno "stato di Palestina", in spregio agli Accordi di Pace di Oslo, che hanno portato alla stessa creazione dell'Autorità Palestinese, generosamente finanziata da uno speranzoso quanto ingenuo Occidente. Un endorsement ben compreso dalla leadership palestinese, conscia di avere di fronte il presidente americano più sbilanciato dai tempi di Carter; silente, di fronte alla decisione dell'AP di unire le forze con l'organizzazione terroristica Hamas - tale essendo riconosciuto dagli stessi USA - che dal 2007 governa nel terrore la Striscia di Gaza.
Il disprezzo di Obama verso Israele è confermato ancora una volta quando in una registrazione Sarkozy si lamenta di Nethanyahu, definendolo in maniera volgare; al che il presidente americano sconsolato rimarca: «a chi lo dici: a me tocca sentirlo ogni giorno!»

lunedì 5 dicembre 2011

L'antisemitismo non è mai duro a morire



E' bufera sul presidente Obama e sul responsabile della diplomazia americana in Belgio.
La scorsa settimana l'ambasciatore degli USA a Bruxelles, ad una conferenza di fronte a parlamentari ebrei, ha sostenuto che occorre effettuare una distinzione fra l'antisemitismo, da condannare sempre e comunque, e l'odio dei musulmani nei confronti degli ebrei, che a suo dire sarebbe alimentato dallo storico conflitto israelo-palestinese; e che, sottintende, verrebbe meno qualora gli israeliani acconsentissero a tutte le richieste del mondo arabo, inclusa quella di gettare a mare tutti gli abitanti non musulmani situati fra il Giordano e il Mediterraneo.
Howard Gutman, attuale ambasciatore degli Stati Uniti in Belgio, ha raccolto mezzo milione di dollari per la campagna elettorale che ha portato all'elezione di Barack Obama a fine 2008. La Casa Bianca si è affrettata a smentire le dichiarazioni di Gutman, precisando che l'antisemitismo va stigmatizzato in tutte le sue forme, compresa quella apparentemente più accettabili dell'antisionismo: "non c'è alcuna giustificazione per il pregiudizio nei confronti degli ebrei o degli abitanti dello stato di Israele".
Ma ciò non ha impedito alle proteste di montare vibrantemente, con diversi esponenti politici di primo piano che hanno chiesto l'immediata rimozione dall'incarico dell'ambasciatore in Belgio.