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venerdì 3 giugno 2016

Il BDS è stato un fallimento economico

di Sangwon Yoon*

Il fisico Stephen Hawking che annulla la partecipazione ad una conferenza a Gerusalemme dove avrebbe incontrato il presidente israeliano; la cantante Lauryn Hill che cancella un concerto previsto a Tel Aviv, e un fondo pensione olandese che include in una black list cinque banche dello stato ebraico. Tutte in apparenza prove che dimostrano il successo delle iniziative internazionali finalizzate ad isolare Israele.
Tuttavia, un esame dei flussi di investimento internazionali in entrata provano l'opposto: gli investimenti stranieri in Israele l'anno scorso hanno raggiunto un nuovo massimo storico a 285 miliardi di dollari. Il triplo rispetto al 2005, quando un gruppo di palestinesi fondò il movimento noto come "Boycott, Divestment and Sanctions" (BDS).
Il movimento include chi nega l'esistenza dello stato ebraico, al pari di chi pretende un cambiamento di politica nei confronti dei palestinesi in Giudea e Samaria, nonché nel West Bank. Ma anche l'obiettivo minimale di penalizzare le compagnie israeliane operanti nel West Bank ha conseguito risultati discutibili: negli ultimi tre anni il valore degli azionisti non residenti i nove fra banche e società israeliane quotate in borsa, è cresciuto vistosamente. «Non abbiamo un problema di investimenti stranieri in Israele; tutto il contrario», gongola in un'intervista Yoel Naveh, capo economista del Ministero della Finanze di Gerusalemme.

martedì 3 novembre 2015

Come investire sulla StartUp Nation

Importante novità per gli investitori che desiderano puntare sul boom della tecnologia Israele.
Grazie ad un accordo fra il NASDAQ, la borsa di Tel Aviv e la BlueStar Indexes, presto sul tabellone di Times Square comparirà il primo ETF (Exchange Traded Fund) che replica l'andamento di un paniere di società tecnologiche israeliane, o collegate ad Israele. Lo strumento sarà denominato "BlueStar TA-BIGITech Israeli Technology exchange traded fund (ETF)", e sarà scambiato sul Nasdaq con il ticker symbol "ITEQ".
Ma che cos'é un ETF e quali saranno in vantaggi per gli investitori?
Un ETF è una popolare forma di investimento, a metà strada fra un fondo di investimento e un'azione. Come il primo, rappresenta un paniere diversificato di società, selezionato da uno o più gestori. Come un'azione, non necessita dell'intermediazione di un promotore finanziario per essere acquistato: è sufficiente inserire la denominazione o il simbolo nel motore di ricerca della propria piattaforma di trading online per essere acquistato.

sabato 19 settembre 2015

Boicottare l'economia israeliana è stupido e controproducente

Il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al rialzo le stime di crescita per l'economia israeliana: al 2.5% per l'anno corrente, e al 3.3% nel 2016. In un recente rapporto, gli economisti del FMI hanno evidenziato come l'economia dello stato ebraico sia stata intoccata dalla Grande Recessione, grazie all'apertura agli scambi internazionali e alla consistente presenza del settore tecnologico, che costituisce più del 40% delle esportazioni industriali.
La robusta crescita economica consentirà ulteriori progressi sul fronte dell'occupazione, con il tasso di disoccupazione destinato a permanere sui minimi storici. Secondo gli studiosi del Fondo, si tratta di un autentico miracolo: negli ultimi 25 anni, gli occupati sono cresciuti del 3.5%; all'anno. Non a caso, non solo Israele ha realizzato la migliore performance economica del mondo occidentale dal 2007 ad oggi; ma allo stesso tempo, è l'unico membro OCSE ad aver battuto le previsioni di crescita complessive formulate dal Fondo otto anni fa.

venerdì 21 agosto 2015

Del boom economico israeliano possono beneficiare tutti

L'economia israeliana continua a presentare segni di estrema vitalità e stabilità. Il Credit Default Swap, che misura il grado di rischiosità finanziaria di un governo, è sceso a meno di 70 punti base: è il costo che occorre sostenere per assicurarsi dal rischio di insolvenza sovrana. A titolo di riferimento, tre anni fa il CDS di Gerusalemme sfiorava i 200 punti base. In Italia oggi il CDS è pari a 115 punti base.
L'elevata solvibilità del piccolo stato ebraico è testimoniata dai "parametri di Maastricht": il deficit di bilancio è inferiore al 3% del PIL, mentre il debito pubblico, in continuo calo in termini relativi grazie alla crescita economica, quest'anno si attesterà al 67.5% del prodotto interno lordo. Israele avrebbe tutti i requisiti per chiedere di entrare a far parte dell'Unione Monetaria Europea.
Si parlava dei prodigi dell'economia israeliana. Dopo il boom nel primo trimestre, il PIL è cresciuto dello 0.5% nel secondo quarto del 2015 (più della Germania, per intenderci). Negli ultimi vent'anni il PIL ha ostentato un'espansione annualizzata del 3.8%: un boom su cui non si è scritto a sufficienza.

domenica 26 luglio 2015

E poi dicono che la "Palestina" è un'invenzione...

Buon compleanno alla Anglo-Palestine Bank! È il 26 luglio 1903 e l'istituto di credito apre la prima filiale a Jaffa: la targa in alto ne attesta con certezza la data di costituzione di quella che sarebbe in seguito stata ribattezzata in Leumi Bank. In realtà la banca aprirà i battenti al pubblico il successivo 2 agosto, ma ci sono due problemi, che fanno venire il mal di pancia a chi con un po' di leggerezza crede che i "palestinesi" esistessero prima del 1968.
Intanto la targa è bilingue, ma una delle due lingue è incontestabilmente ebraico.
Soprattutto, la Anglo-Palestine Bank fu costituita dal movimento sionista: il Jewish Colonial Trust, di fatto la prima banca sionista, fu costituita nel 1899, con l'obiettivo di raccogliere capitali ed erogare credito alle iniziative che si andavano costituendo in "Palestina". Tre anni dopo fu costituita una società controllata, la APB, appunto, con un capitale iniziale di 50.000 sterline, impiegato per l'acquisto di terre e il finanziamento di attività produttive da parte degli insediati.

mercoledì 22 luglio 2015

Una breve storia dello Shekel israeliano


Danny Ayalon, già viceministro degli Esteri di Gerusalemme, ha avviato un interessante progetto divulgativo, basato su aspetti quotidiani della vita economia e sociale di Israele. La prima puntata si sofferma sulla moneta dello stato ebraico: lo shekel; o, come più correttamente dovrebbe essere chiamato, il "nuovo shekel israeliano" (NIS).

Immaginate di ritrovarvi d'improvviso a passeggiare per la Mesopotamia, 5000 anni fa, e vi venisse voglia di comprare un cornetto, strada facendo. Il rivenditore vi chiederebbe un pagamento di "Shiklu kaspum". Non è difficile da comprendere, vero? Il significato originario era traducibile in "un ammontare di argento del peso di circa 11 grammi". Questa locuzione si evolse nella versione biblica "Shekel Hakesef", o "Shekel d'argento".
Il fiordaliso è a noi familiare, per essere presente sulla moneta da uno shekel; ma appare sulle monete ebraiche sin dalla dominazione persiana di Israele. I simboli in basso a sinistra non sono stelle: sono le lettere "Y", "H" e "D"; "Yehud" nell'ebraico antico. Come sulle monete rinvenute, e risalenti al IV Secolo a.C.

mercoledì 29 aprile 2015

Il boom economico israeliano attira nuovi capitali

Continua a sorprendere l'economia israeliana. Il piccolo stato ebraico, la cui economia si è espansa del 6.8% annualizzato nel quarto trimestre, attira interesse e capitali da tutto il mondo. L'eccellenza delle università e dei centri di ricerca, e l'effervescenza del tessuto imprenditoriale, fanno di Israele la meta obbligata per le start-up, dietro l'imprendibile Silicon Valley californiana.
Secondo un rapporto rilasciato dall'IVC Research Center, nel primo trimestre di quest'anno 166 società di nuova costituzione (start-up, appunto) hanno raccolto fondi per complessivi 994 milioni di dollari: si tratta del secondo miglior dato degli ultimi dieci anni. Particolare ancora più sorprendente, i mezzi freschi raccolti risultano in crescita del 48% rispetto allo stesso periodo di un anno fa, sebbene facciano registrare una contrazione rispetto al passato trimestre. Negli ultimi sei mesi, a marzo, i capitali raccolti dalle start-up israeliane superano i due miliardi di dollari.

martedì 27 gennaio 2015

Israele quinto al mondo per innovazione

Secondo l'annuale classifica stilata da Bloomberg, Israele si piazza al quinto posto nel ranking dell'innovazione mondiale. Il piccolo stato ebraico supera gli Stati Uniti (sesti). Ventiquattresima l'Italia. Sei i parametri presi in esame: spesa in ricerca e sviluppo, in percentuale del PIL; valore aggiunto generato dal settore manifatturiero per abitante; densità di aziende high tech; percentuale di laureati e post-laureati; personale impiegato in attività di ricerca; numero brevetti, per milione di abitanti.
Dei quasi duecento stati al mondo, sono stati considerati poco più di un terzo, in virtù della compresenza di tutti i parametri descritti. La classifica mostra le prime cinquanta posizioni.
Israele risulta secondo in ricerca&sviluppo, 11° per presenza di aziende high-tech e quarto per livello di istruzione e per il personale impiegato in attività di ricerca.

venerdì 23 gennaio 2015

In Israele hanno già inventato l'auto che va ad acqua

Phinergy è una start-up israeliana attiva dal 2008 nello sviluppo di tecnologie energetiche sostenibili a zero emissioni ed elevatissime performance, basate su speciali batterie in metallo (alluminio e zinco) e aria. La batterie utilizzate assorbono aria dall'ambiente per liberare l'energia contenuta nei metalli: un concetto fantascientifico e incredibile, che però ha superato i test di laboratorio e ora le prove su strada.
Nel video le batterie montate su un auto producono energia basandosi sull'interazione fra alluminio, aria dell'ambiente e acqua: l'auto, così alimentata, è riuscita a percorrere oltre 300 chilometri a consistente velocità; senza emissione alcuna di sostanze tossiche, e con l'utilizzo di materiali interamente riciclabili e non dannosi per l'ambiente.
La tecnologia sviluppata può essere applicata a svariati campo: mobilità, immagazzinamento di energia, difesa ed elettronica di consumo. Fa sfuggire un sorriso di compatimento, ma di fatto tutto ciò che richiede questa tecnologia... è fare il pieno di acqua prima di partire.

martedì 16 settembre 2014

I prodigi dell'economia palestinese

Ci siamo già occupati in passato dei prodigi dell'economia israeliana: fra le poche realtà in netta espansione fra i paesi occidentali, capace di assicurare ai suoi cittadini - tutti: ebrei, arabi, drusi - un'espansione del benessere senza eguali. Basti pensare che negli ultimi dieci anni il reddito pro-capite si è espanso del 25%; mentre in Italia si è contratto del 7.5% nel medesimo arco di tempo. Persino nella formidabile Germania l'espansione del reddito negli ultimi dieci anni non è andata oltre il 15%.
Noti i motivi di questo boom, per un'economia dalle dimensioni paragonabili a quelle del Cile: un ottimo sistema scolastico, una massiccia spesa per investimenti in ricerca e sviluppo, e una ossessione per l'innovazione, che colloca lo stato ebraico addirittura al terzo posto al mondo, dietro Finlandia e Svizzera. Per non parlare di un pragmatismo, in politica estera e nell'economia internazionale, che sta consentendo ad Israele di violare tabu storici e consolidati: nelle ultime settimane hanno fatto notizia gli accordi di fornitura pluriennale di gas naturale, nei confronti di Egitto e Giordania. Alcun mesi fa il primo ministro della Malesia Najib Razak ha fatto visita ai leader di Hamas a Gaza, enfatizzando la propria contiguità alle posizioni palestinesi; ma ciò non impedisce un boom dell'interscambio, raddoppiato nel 2013 rispetto all'anno precedente (e quest'anno siamo a +27% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), grazie soprattutto alle  importazioni che Gerusalemme affluiscono a Kuala Lumpur.

martedì 25 febbraio 2014

Il segreto del boom economico di Israele

Orfana di Stanley Fisher, il mitico governatore che dopo tanti anni di servizio ha lasciato l'istituto di emissione di Gerusalemme per prestare servizio presso la Federal Reserve di Janet Yellen; a sorpresa la Banca d'Israele ha tagliato ieri «il tasso d'interesse principale dall'1% allo 0,75%, a causa di dati relativi all'inflazione inferiori alle attese e di una crescita economica fiacca». Questo è lo scarno comunicato di ADN Kronos diffuso ieri.
"Crescita economica fiacca". Ad avercela noi, quella crescita. Dal 2002 al 2011 il PIL del piccolo stato ebraico - la superficie complessiva è analoga a quella di una regione italiana come la Puglia - è più che raddoppiato, passando da 113 a 258 miliardi di dollari correnti. Un boom economico vero e proprio, che fa impallidire anche le performance economiche delle economie emergenti; adesso peraltro visibilmente ingessate.

giovedì 13 febbraio 2014

È tempo di investimenti


L'economia sta migliorando, ci avvisano gli esperti. Gli Stati Uniti procedono al galoppo, l'Europa sta faticosamente uscendo dalla recessione, e la Cina non preoccupa più di tanto. Merito soprattutto della ripresa degli investimenti, favoriti dai bassi tassi di interesse e dalla abbondante liquidità.
Insomma, bisogna avere fiducia e investire, per uscire dalla crisi; è il monito corale degli economisti. È anche per questo che l'autorità palestinese ha deciso di aumentare gli stanziamenti a favore dei terroristi rilasciati in tempi diversi dalle carceri israeliane, in ossequio ad negoziati di pace che però si sono risolti in gesti di buona volontà soltanto unilateralmente. Palestinian Media Watch rende noto che il governo di Ramallah ha reso disponibili ulteriori 46 milioni di dollari per il 2014, per i criminali rilasciati da Gerusalemme, in aggiunta alle svariate centinaia di milioni di dollari stanziati in un bilancio bucato come una forma di gruviera per lo stesso scopo. Bizzarra ipocrisia, quello dei governi occidentali: che denunciano e deplorano il terrorismo mondiale, e si rifiutano sdegnati di sostenere finanziariamente chi attenta alla vita altrui; salvo versare nelle casse di Abu Mazen ingenti somme - due miliardi di euro, soltanto negli ultimi cinque anni, l'Unione Europea - che in significativa parte finiscono nelle tasche di chi ha le mani ancora macchiate del sangue di innocenti.

lunedì 23 dicembre 2013

La fine conoscenza di Hamas dell'economia

I palestinesi, si sa, con l'economia sono in confidenza. Ci sanno fare. Soltanto l'UNRWA, la mastodontica ed elefantiaca agenzia ONU che si occupa di quella truffa storica nota con il nome di "rifugiati palestinesi", in tutta la sua esistenza ha beneficiato di fondi pari a 25 volte gli aiuti finanziari ricevuti dagli europei dopo il Secondo Conflitto Mondiale, nell'ambito del Piano Marshall (in termini reali, s'intende). I parlamentari beneficiano di un gettone di presenza pari a 24 volte il reddito medio di un cittadino palestinese. Lo stesso Abu Mazen da' il buon esempio, ammassando una ricchezza sconsiderata, fra una missione all'estero e un incontro con l'adorante sindaco di Napoli. E ancora a Gaza riescono a farsi fornire benzina sussidiata, per alimentare le centrali elettriche, fra una crisi energetica e l'altra; autoprodotta, s'intende.
Malgrado Israele possa vantare un cittadino che è stato eletto qualche anno fa il miglior banchiere centrale del mondo; al punto che da essere stato invitato a far parte del Consiglio direttivo della nuova Federal Reserve targata Janet Yellen (e vai con le tesi cospirazionistiche!...); da Gaza ci si preoccupa di condividere con gli amati vicini israeliani un po' di queste capacità economiche.

venerdì 22 novembre 2013

Israele, paradiso del venture capital

Israele, culla dell'high tech mondiale. Il 2013 non sarà ricordato soltanto per l'acquisizione miliardaria (966 milioni di dollari, per l'esattezza) di Waze da parte di Google. Secondo un articolo apparso ieri sul Wall Street Journal, nei primi nove mesi di quest'anno sono state concluse ben 1183 transazioni, per un controvalore di 8,64 miliardi di dollari. È un dato impressionante sotto diversi punti di vista:
  • rispetto ad una popolazione di meno di 8 milioni di abitanti, le operazioni di fusione e acquisizione (M&A) hanno rappresentato un controvalore di oltre mille dollari pro-capite: un dato sensibilmente maggiore di quello relativo agli Stati Uniti, fermi ad "appena" 660 dollari pro-capite;
  • in relazione alle dimensioni dell'economia, le operazioni di M&A in Israele sono state pari al 3.5% del prodotto interno lordo; negli USA, il turnover non ha superato l'1.3% del PIL;
  • l'articolo del WSJ celebrava l'Irlanda come il paese dalla più spinta imprenditorialità dell'area Euro, con 311 transazioni complessive nei primi tre trimestri del 2013, per un controvalore di 1.3 miliardi di dollari. Spettacolare il gap rispetto al piccolo stato ebraico, che fa della ricerca e innovazione il suo punto di forza.

Come puntualizza il quotidiano finanziario americano, soltanto negli ultimi cinque anni, per ogni dollaro raccolto in Europa dai fondi di venture capital, ne sono stati raccolti ben 10 negli Stati Uniti e addirittura 23 in Israele. Nessuno stato europeo è riuscito a far meglio in questo arco di tempo: nemmeno la Germania.
L'inovazione tecnologica favorisce aumenti di produttività, che tengono sotto controllo l'inflazione e aumentano la ricchezza complessiva. Non è un caso che il PIL pro-capite sia passato dai 18200 dollari del 2004, ai 22129 dollari del 2012 (+22%); nel medesimo arco di tempo, il PILpc è cresciuto del 13.9% in Germania, del 4.1% in Francia, mentre è sceso del 6% in Italia.
Ricerca, innovazione, eccellenza nell'istruzione, lancio di nuovi prodotti e processi fanno del piccolo stato ebraico un punto di riferimento globale. Non a caso l'agenzia di rating americana Standard&Poor's assegna a Gerusalemme un rating elevato (A+) e stabile.
Chissà come mai le relazioni scarseggiano fra il mondo accademico, scientifico e industriale italiano, e lo stato ebraico. Che oltretutto, si accinge a sperimentare un boom energetico grazie agli immensi giacimenti di gas naturale rinvenuti al largo delle proprie coste.

mercoledì 6 novembre 2013

Israele sta per diventare esportatore di energia

Il boom della produzione di gas naturale da rocce scistose (shale gas) sta favorendo una insperata primavera dell'industria manifatturiera americana. Il fenomeno della delocalizzazione sta rapidamente rientrando, e diverse grandi compagnie stanno ricollocando la produzione all'interno dei confini nazionali; incoraggiate da un costo dell'energia in caduta libera. Basti pensare che un milione di BTU (British Thermal Unit, l'unità di misura del gas naturale) costa 9 dollari e mezzo nel Regno Unito, 11 dollari in Germania e quasi 17 dollari in Giappone. In USA, 1 mBTU costa meno di 3 dollari e mezzo. Non sorprende che diverse abitazioni di nuova costruzione sono alimentate a gas naturale: una fonte di energia relativamente pulita, e di cui gli USA disporranno in crescenti quantità.

Ma c'è un altro stato al mondo, che sta lavorando alacremente alla propria indipendenza energetica. Per porre fine alle ostilità, Israele ha riconsegnato la penisola del Sinai, letteralmente galleggiante sul petrolio, all'Egitto del 1978, in cambio della sottoscrizione di un trattato di pace che dura tuttora. Lo stato ebraico è completamente dipendente dall'estero per l'approvvigionamento energetico, e non è un mistero che i ripetuti attentati terroristici agli oleodotti miravano proprio a minarne l'attività manifatturiera.
Ma come riporta oggi il Financial Times, Gerusalemme sta lavorando per diventare in tempi brevi addirittura un paese esportatore di energia. Al largo delle coste di Ashdod, nell'Israele meridionale, è in funzione la piattaforma di Tamar, frutto della joint venture fra un'azienda israeliana e la texana Noble Energy. Il progetto, del valore di 3.5 miliardi di dollari, ha iniziato a produrre gas da marzo, e contribuirà quest'anno al PIL israeliano per un punto percentuale pieno. Il gas destinato all'esportazione, ottenuto di recente il consenso dalla Corte Suprema  in tal senso, dovrebbe invece provenire dal giacimento "Levietano", situato una trentina di chilometri ad ovest di Tamar, e dalla capacità stimata in 19000 miliardi di piedi cubici.
Le destinazioni più immediata sarebbero la Turchia, la Grecia, la Giordania o anche l'Egitto; paesi che così beneficierebbero di drastiche riduzioni dell'attuale bolletta energetica. È una situazione "win-win", per usare le parole del responsabile operativo della Delek Drillings, l'azienda israeliana responsabile della ricerca e dell'estrazione. Malgrado i rapporti ufficiali siano quantomeno accidentati, le autorità turche si sono dichiarate molto interessate al gas israeliano. Ma al di là di aspetti commerciali ed economici, la prossima piena autosufficienza energetica del piccolo stato ebraico si riverbererà su tutti i rapporti con gli stati arabi confinanti, ai quali riuscirà meno facile il tentativo di mettere in ginocchio Gerusalemme strozzando le forniture di petrolio. Gli stessi Stati Uniti, che si stanno defilando maldestramente dal Medio Oriente, vedrebbero ridurre il loro attuale potere di condizionamento nei confronti di Israele.

giovedì 18 ottobre 2012

Palestinesi: in Israele c'è lavoro (e sesso) per tutti!

La repubblica israeliana ha di recente visto confermato il suo merito di credito da parte delle agenzie di rating americane. E' l'unico stato occidentale ad aver beneficiato di un upgrade nel rating negli ultimi cinque anni. Esempio di democrazia, di crescita economica, di benessere diffuso, di progresso civile e tecnologico, di un sistema giudiziario che funziona egregiamente (al punto da mettere sul banco degli imputati un ex presidente della repubblica ed un ex primo ministro). Insomma, un esempio per il resto del Medio Oriente. Forse è anche per questo che il mondo arabo manifesta nei suoi confonti una crescente verbosità, se non vera e propria aggressività.
Non che l'Occidente faccia qualcosa per mitigare questi sentimenti. L'UNRWA, l'agenzia speciale dell'ONU per i "rifugiati" (e relativi discendenti) palestinesi si è vista opporre un secco rifiuto da parte dei docenti giordani, davanti alla proposta di introdurre nei corsi di insegnamento la tragedia immane dell'Olocausto: «danneggerebbe la causa palestinese, e altererebbe la visione degli studenti circa il principale nemico: l'occupazione israeliana», è stata la sconcertante risposta di un corpo docente, pagato dall'Occidente, e al servizio di 122 mila studenti frequentanti le 172 scuole presenti in una diecina di campi profughi in Giordania. L'UNRWA tace.
Malgrado questa ostilità, Israele continua a promuovere lo sviluppo delle economie degli stati arabi circostanti. In particolare nei confronti dell'Autorità Palestinese. Alla fine di settembre i permessi di lavoro rilasciati ai palestinesi sono stati incrementati di 5000 unità a 46.450, per un incremento del 49% rispetto ad un anno e mezzo fa. Oltre ai palestinesi che lavorano in Israele, altri 24660 palestinesi sono occupati in Giudea e Samaria, percependo un salario pari a due volte la retribuzione media corrisposta dalle aziende arabe del West Bank.

Come però fa rilevare Rights Reporter, il boicottaggio minacciato o praticato nei confronti delle aziende israeliane che operano nei territori contesi minaccia il posto di lavoro di diecine di migliaia di palestinesi. Le rimesse degli arabi che lavorano in Israele contribuiscono al 35% del PIL palestinese. Sciaguratamente però questo aspetto sfugge a chi professa, comodamente dal divano di casa propria, l'ostracismo nei confronti di un'economia e di uno stato che distribuisce benessere alle popolazioni vicine.
Si ricorre a tutti i mezzi; alcuni davvero rocamboleschi, per non dire ridicoli. Adesso si alimenta l'accusa di "molestie sessuali". Il blog "Bugie dalle gambe lunghe" riporta la curiosa denuncia di un quotidiano arabo, secondo cui i lavoratori palestinesi in Israele sarebbero vittima di molestie sessuali da parte delle provocatorie donne israeliane. Non è esplicitata la modalità di questa provocazione, che riguarderebbe addirittura il 77% dei lavoratori palestinesi, secondo la denuncia del sindacato di categoria, che ammette la presenza di circa 55 mila palestinesi.
Nell'immaginario collettivo, la donna disponibile era di origine scandinava. Non più. Secondo l'istituto di statistica palestinese, ci sono datrici di lavoro letteralmente infoiate in Israele, che addescano i malcapitati palestinesi mostrando loro una caviglia scoperta, o un polso voluttuoso, o magari un capello sale e pepe che è il massimo del messaggio erotico. Secondo questa accusa, la maggiore disponibilità di permessi di lavoro sarebbe strumentale al soddisfacimento di bisogni carnali di diaboliche infedeli.
Stendiamo su tutto ciò un velo pietoso. Possibilmente, molto spesso. In modo da non lasciar trapelare nulla alla visione dei poveri lavoratori.

mercoledì 26 settembre 2012

Hamas affama i palestinesi

Ancora una cocente delusione per i filopalestinesi, sempre più scottati da una realtà ben diversa da quella romanzata da una propaganda sempre più a corto di idee convincenti. Il "governo" di Hamas a Gaza ha sostanzialmente dimezzato le importazioni di frutta dal vicino Israele. Malgrado la sbandierata emergenza umanitaria, a cui giustamente non crede ormai più nessuno, Hamas ha bandito sette diversi tipi di frutto prodotti nel vicino Israele, di cui si vorrebbe colpire l'economia. Per motivi imprecisati sono esclusi dal bando mele e banane.
La decisione avrà però un immediato risultato: riducendo l'offerta sul mercato locale, il prezzo della frutta aumenterà vertiginosamente, sollecitando i contrabbandieri senza scrupoli ad impiegare i mille tunnel illegali che collegano la Striscia all'Egitto, e da cui Hamas ricava 1/4 delle proprie entrate. Qualche cinico fa notare che lo scopo reale è proprio questo: Israele non ha certo bisogno di un'economia ridotta come quella della vicina Striscia di Gaza per collocare la propria produzione agricola; ma Hamas ha bisogno di denaro, e la domanda di generi alimentari della propria popolazione stimolerà la fornitura per canali illegali. Un po' come avviene per il carburante, che qui scarseggia, ma che Hamas rifiuta dal vicino Israele.
Immediate le proteste dei grossisti palestinesi, che considerano il drastico taglio delle importazioni «irresponsabile e irrealistico», e lamentano l'impossibilità di soddisfare la domanda mediante un'autarchia che al momento si limita alla sovrabbondanza di guava, un frutto tropicale qui abbondante.
Da quando il bando è entrato in vigore, il prezzo delle pesche è raddoppiato, e altri frutti hanno conosciuto un simile rincaro.

domenica 3 giugno 2012

Che ci fa Israele fra i paesi felici?

Il mondo è bello perché bizzarro, imprevedibile e spesso inspiegabile secondo la logica e la razionalità. Uno si aspetterebbe che la felicità risieda negli stati ricchi, con cittadini ricchi, dotati di servizi sociali efficienti, di materie prime abbondanti, di stati confinanti amichevoli e non belligeranti. E quasi sempre è così. Ma non sempre.
Alla candida domanda "quali sono gli stati al mondo più felici?" ti aspetteresti una risposta ovvia, scontata. Ed in effetti, secondo la classifica elaborata dall'OCSE sulla base del benessere economico, dei rapporti interpersonali e della salute ti ritrovi fra i primi dieci Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia; Canada e Australia; Svizzera e Austria; ma, clamorosamente, al sesto posto Israele!
Ma come, subiscono attacchi tutti i giorni da nord (Hezbollah, in Libano) e da sud (Hamas, a Gaza); il West Bank è meno minaccioso da quando l'intifada è stata ridimensionata con la barriera difensiva; da ovest di tanto in tanto si affaccia qualche imbarcazione con armi e munizioni per i terroristi di Hamas, con la scusa di portare viveri e alimentari (scaduti) alla popolazione palestinese. E che ti combinano questi ebrei? si mostrano felici, anzi, felicissimi, come nessuno stato mediterraneo o se è per questo mondiale.
A Gerusalemme avranno di che esserne orgogliosi. Nei paesi arabi confinanti, avranno di che essere invidiosi. E si vede.

L'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha classificato diverse diecine di stati, sulla base di parametri legati al livello di istruzione, alla salute (aspettativa di vita e qualità delle prestazioni sanitarie) e all'occupazione. Malgrado la costante minaccia subita, il tasso di omicidi è in linea con la media OCSE, e il 70% degli israeliani si dichiara tranquillo quando la sera rincasa.
In un'altra classifica appena resa nota sulla competitività delle prime 59 economie al mondo, gli Stati Uniti si collocano al secondo posto, dietro la città-stato di Hong Kong; i soliti paesi nordici svettano in testa; la Germania si classifica al nono posto, l'Olanda è 11esima mentre Israele, 19esimo, precede di diverse lunghezze Irlanda, Austria, Corea del Sud, Cina, Giappone, Francia (29esima), Turchia, Spagna ed Italia, rispettivamente al 38°, 39° e 40° posto. Un grande traguardo per un'economia considerata "emergente" fino ad un paio di anni fa, e ora esempio per tutto il Medio Oriente e per il mondo industrializzato. La buona notizia, che spinge molti a praticare l'aliyah, è che benessere economico si associa qui a felicità e gioia di vivere.

giovedì 31 maggio 2012

Spiragli di pace fra Israele e palestinesi

L'economia israeliana è fra le più vivaci e dinamiche al mondo. Nonostante la costante minaccia proveniente dagli stati confinanti, e pur priva di materie prime, l'eccellenza nella tecnologia e nel settore medico hanno consentito negli ultimi anni una vistosa espansione del prodotto interno lordo e una costante crescita del reddito delle famiglie; 1/5 delle quali sono arabe.
Altri arabi stanno ora beneficiando di questo boom economico (dall'inizio della Grande Recessione Israele è l'unico stato al mondo che ha visto migliorare il proprio merito di credito - rating - ad opera di Standard&Poor's). Le relazioni politiche fra Israele e West Bank sono ancora complicate dalla scarsa volontà da parte palestinese di sedersi al famoso tavolo delle trattative per il mutuo e pacifico riconoscimento. Ma ciò non sta impedendo il fiorire di relazioni commerciali. Certo, i volumi dell'interscambio sono ancora modesti: 4.3 miliardi di dollari nel 2011, in buona misura esportazioni israeliane. Ma la crescita economica dello stato ebraico ha consentito all'economia dell'Autorità Palestinese di aumentare le proprie "esportazioni" del 18%.
E nel frattempo si tengono iniziative bilaterali di scambi culturali, prima ancora che commerciali. Il Jerusalem Post rende nota una recente conferenza tenutasi nel Negev, che ha visto la presenza di uomini di affari sia israeliani che palestinesi. L'incontro è culminato con una competizione - questa volta, amichevole - fra studenti universitari arabi ed ebrei.

Il governo unitario palestinese è ancora lungi dal realizzarsi, malgrado le promesse roboanti di un anno fa. Nel frattempo il governo unitario israeliano viaggia a pieni giri, e partorisce proposte che non si esita a definire clamorose. Ieri il ministro della Difesa Barak ha dichiarato che non è da escludersi la possibilità che Israele si ritiri unilateralmente dai territori contesi, ottenuti dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. I negoziati fra le parti, auspicati dagli Accordi di Oslo che hanno originato l'Autorità nazionale palestinese tardano a manifestarsi, malgrado i ripetuti inviti in tal senso di Gerusalemme. Israele ha sempre restituito i territori occupati in seguito ai conflitti in cambio di pace: così ha fatto con l'Egitto, a cui restituiì il Sinai, e altrettanto ha fatto con la Giordania. Il disimpegno dal Libano e più avanti quello dalla Striscia di Gaza è stato invece unilaterale, e ha prodotto il terrorismo di Hezbollah a nord e di Hamas a sud. La prospettiva di liberare l'1.5% di territorio palestinese nel West Bank ancora occupato viene salutata con un misto di stupore e approvazione, ma c'è il concreto timore che ciò possa nuocere ancora una volta ai civili.
Nel frattempo, un'altra concreta iniziativa a favore della distensione, sempre purtroppo proveniente da Israele (e dire che ci vorrebbe ben poco dall'altra parte: ma Abu Mazen è impegnato ad usare il pugno di ferro contro i rivali di Hamas e contro la stessa opposizione interna ad Al Fatah...): il governo di Gerusalemme si è impegnato a restituire alle rispettive famiglie i corpi di 91 terroristi palestinesi, rimasti vittima di attentati da essi stessi scagliati nelle città israeliane. Fra questi, ci sono l'attentatore che uccise 18 persone ad una fermata d'autobus a Gerusalemme, l'autore di un attentato simile a Be'er Sheva (16 morti) e l'autore dell'attentato al Café Hillel di Gerusalemme (sei morti). Si spera che la restituzione dei corpi non sia seguita da deplorevoli episodi di celebrazione e di onoranza. Spesso in passato a questi criminali sono state intitolate strade e piazze. Speriamo che si volti pagina.

mercoledì 4 aprile 2012

Israele: un esempio di integrazione nel mondo del lavoro


Israele è senza dubbio un altro mondo, da cui l'Occidente dovrebbe prendere spunto (le residue speranze di rappresentare un modello per il resto del Medio Oriente sono state spazzate via dall'oscurantismo promesso agli arabi da una sciagurata e mal interpretata "primavera"). Non solo lo stato ebraico spicca per crescita economica che ha ridotto ai minimi storici il tasso di disoccupazione, al punto da fregiare il governatore della Bank of Israel come migliore responsabile della politica monetaria nazionale al mondo. Ma si distigue per la profondità con cui favorisce l'integrazione nel tessuto economico di tutta la società, senza distinzione di sesso o di razza.
Fa notizia - ma non sorprende chi conosce questo stato - resa nota questa mattina dalla stessa Bank of Israel, secondo cui il tasso di partecipazione delle donne arabe alla forza lavoro è raddoppiato negli ultimi quarant'anni, pur mostrando ancora ritardo rispetto al tasso di partecipazione delle donne ebree. Secondo lo studio, il 20% delle donne arabe è impiegata in Israele: il doppio, appunto, rispetto al 10% del 1970. La differenza rispetto alla maggiore partecipazione del resto della popolazione è spiegata con il gap di istruzione e con un retaggio culturale che ancora scoraggia nel mondo arabo l'impegno femminile nel mercato del lavoro.
Se ancora molto resta da fare da queste parti - ogni stato purtroppo ha il suo Mezzogiorno - l'integrazione attiva della donna nella società rimane un miraggio nel mondo arabo. Spiace constatare la sostanziale complicità dei media occidentali, sempre pronti a rilevare fenomeni di folklore dello stato israeliano, a condizione che facciano apparire Gerusalemme e dintorni sotto una luce grottesca; e sempre lesti a rimuovere dalle prime pagine dei giornali - e spesso anche dalle ultime - notizie di carattere generale che ristabiliscono una rappresentazione veritiera del conflitto arabo-israeliano.

E' il caso del pronunciamento di ieri della Corte di Giustizia Internazionale (ICC), che ha rigettato il ricorso dell'Autorità Palestinese contro lo stato ebraico, il quale si sarebbe macchiato di non meglio specificati "crimini di guerra" nell'operazione Piombo Fuso nella Striscia di Gaza a cavallo fra il 2008 e il 2009. Quell'operazione provocò una certa condanna da parte del mondo occidentale, ingannato da una astuta propaganda della stampa araba. Le Nazioni Unite promossero un'inchiesta, affidata al giudice sudafricano Goldstone, il quale emise una frettolosa quanto vergognosa condanna, che in seguito ritrasse imbarazzato dalle colonne del New York Times: «se avessi saputo ciò che so oggi, non avrei emesso quel rapporto», ammise tardivamente Goldstone. Frustrata dalla mancata condanna della legittima iniziativa israeliana, la leadership palestinese di stanza a Ramallah ha sollecitato l'intervento della ICC, la quale però ha rilevato di non avere alcuna giurisdizione, in quanto l'entità agente non può configurarsi come uno stato.
Ci si aspetterebbe un mea culpa da parte della stampa occidentale, che a suo tempo enfatizzò l'iniziativa velleitaria di Abu Mazen. Dubito che ciò avverrà. Spero che quantomeno questa ennesimo monito ad iniziative unilaterali estemporanee induca la leadership palestinese a tornare al tavolo dei negoziati, unica strada verso il mutuo riconoscimento. E' tempo che nasca uno stato palestinese; a condizione che i palestinesi lo vogliano.