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giovedì 5 marzo 2015

I palestinesi confidano nei (datori di lavoro) israeliani

Il checkpoint di Huwwar, al confine fra Israele e Nablus.
Un sondaggio condotto dalla Palestinian Central Bureau of Statistics (PCBS) fra ottobre e dicembre, con il contributo finanziario dell'Unione Europea, rivela che i lavoratori palestinesi impiegati nei territori sotto il controllo di Israele, percepiscono una retribuzione pari al doppio rispetto a quella versata ai lavoratori impegnati nel West Bank sotto il controllo dell'Autorità Palestinese.
Nelle aree controllate da Israele, la paga media giornaliera per i lavoratori palestinesi si attesta a 194.2 shekel (pari a 44 euro, NdT), mentre per i lavoratori nel West Bank palestinese la remunerazione media si attesta a 91.4 shekel; a 66.1 euro nella Striscia di Gaza.

giovedì 18 ottobre 2012

Palestinesi: in Israele c'è lavoro (e sesso) per tutti!

La repubblica israeliana ha di recente visto confermato il suo merito di credito da parte delle agenzie di rating americane. E' l'unico stato occidentale ad aver beneficiato di un upgrade nel rating negli ultimi cinque anni. Esempio di democrazia, di crescita economica, di benessere diffuso, di progresso civile e tecnologico, di un sistema giudiziario che funziona egregiamente (al punto da mettere sul banco degli imputati un ex presidente della repubblica ed un ex primo ministro). Insomma, un esempio per il resto del Medio Oriente. Forse è anche per questo che il mondo arabo manifesta nei suoi confonti una crescente verbosità, se non vera e propria aggressività.
Non che l'Occidente faccia qualcosa per mitigare questi sentimenti. L'UNRWA, l'agenzia speciale dell'ONU per i "rifugiati" (e relativi discendenti) palestinesi si è vista opporre un secco rifiuto da parte dei docenti giordani, davanti alla proposta di introdurre nei corsi di insegnamento la tragedia immane dell'Olocausto: «danneggerebbe la causa palestinese, e altererebbe la visione degli studenti circa il principale nemico: l'occupazione israeliana», è stata la sconcertante risposta di un corpo docente, pagato dall'Occidente, e al servizio di 122 mila studenti frequentanti le 172 scuole presenti in una diecina di campi profughi in Giordania. L'UNRWA tace.
Malgrado questa ostilità, Israele continua a promuovere lo sviluppo delle economie degli stati arabi circostanti. In particolare nei confronti dell'Autorità Palestinese. Alla fine di settembre i permessi di lavoro rilasciati ai palestinesi sono stati incrementati di 5000 unità a 46.450, per un incremento del 49% rispetto ad un anno e mezzo fa. Oltre ai palestinesi che lavorano in Israele, altri 24660 palestinesi sono occupati in Giudea e Samaria, percependo un salario pari a due volte la retribuzione media corrisposta dalle aziende arabe del West Bank.

Come però fa rilevare Rights Reporter, il boicottaggio minacciato o praticato nei confronti delle aziende israeliane che operano nei territori contesi minaccia il posto di lavoro di diecine di migliaia di palestinesi. Le rimesse degli arabi che lavorano in Israele contribuiscono al 35% del PIL palestinese. Sciaguratamente però questo aspetto sfugge a chi professa, comodamente dal divano di casa propria, l'ostracismo nei confronti di un'economia e di uno stato che distribuisce benessere alle popolazioni vicine.
Si ricorre a tutti i mezzi; alcuni davvero rocamboleschi, per non dire ridicoli. Adesso si alimenta l'accusa di "molestie sessuali". Il blog "Bugie dalle gambe lunghe" riporta la curiosa denuncia di un quotidiano arabo, secondo cui i lavoratori palestinesi in Israele sarebbero vittima di molestie sessuali da parte delle provocatorie donne israeliane. Non è esplicitata la modalità di questa provocazione, che riguarderebbe addirittura il 77% dei lavoratori palestinesi, secondo la denuncia del sindacato di categoria, che ammette la presenza di circa 55 mila palestinesi.
Nell'immaginario collettivo, la donna disponibile era di origine scandinava. Non più. Secondo l'istituto di statistica palestinese, ci sono datrici di lavoro letteralmente infoiate in Israele, che addescano i malcapitati palestinesi mostrando loro una caviglia scoperta, o un polso voluttuoso, o magari un capello sale e pepe che è il massimo del messaggio erotico. Secondo questa accusa, la maggiore disponibilità di permessi di lavoro sarebbe strumentale al soddisfacimento di bisogni carnali di diaboliche infedeli.
Stendiamo su tutto ciò un velo pietoso. Possibilmente, molto spesso. In modo da non lasciar trapelare nulla alla visione dei poveri lavoratori.

mercoledì 4 aprile 2012

Israele: un esempio di integrazione nel mondo del lavoro


Israele è senza dubbio un altro mondo, da cui l'Occidente dovrebbe prendere spunto (le residue speranze di rappresentare un modello per il resto del Medio Oriente sono state spazzate via dall'oscurantismo promesso agli arabi da una sciagurata e mal interpretata "primavera"). Non solo lo stato ebraico spicca per crescita economica che ha ridotto ai minimi storici il tasso di disoccupazione, al punto da fregiare il governatore della Bank of Israel come migliore responsabile della politica monetaria nazionale al mondo. Ma si distigue per la profondità con cui favorisce l'integrazione nel tessuto economico di tutta la società, senza distinzione di sesso o di razza.
Fa notizia - ma non sorprende chi conosce questo stato - resa nota questa mattina dalla stessa Bank of Israel, secondo cui il tasso di partecipazione delle donne arabe alla forza lavoro è raddoppiato negli ultimi quarant'anni, pur mostrando ancora ritardo rispetto al tasso di partecipazione delle donne ebree. Secondo lo studio, il 20% delle donne arabe è impiegata in Israele: il doppio, appunto, rispetto al 10% del 1970. La differenza rispetto alla maggiore partecipazione del resto della popolazione è spiegata con il gap di istruzione e con un retaggio culturale che ancora scoraggia nel mondo arabo l'impegno femminile nel mercato del lavoro.
Se ancora molto resta da fare da queste parti - ogni stato purtroppo ha il suo Mezzogiorno - l'integrazione attiva della donna nella società rimane un miraggio nel mondo arabo. Spiace constatare la sostanziale complicità dei media occidentali, sempre pronti a rilevare fenomeni di folklore dello stato israeliano, a condizione che facciano apparire Gerusalemme e dintorni sotto una luce grottesca; e sempre lesti a rimuovere dalle prime pagine dei giornali - e spesso anche dalle ultime - notizie di carattere generale che ristabiliscono una rappresentazione veritiera del conflitto arabo-israeliano.

E' il caso del pronunciamento di ieri della Corte di Giustizia Internazionale (ICC), che ha rigettato il ricorso dell'Autorità Palestinese contro lo stato ebraico, il quale si sarebbe macchiato di non meglio specificati "crimini di guerra" nell'operazione Piombo Fuso nella Striscia di Gaza a cavallo fra il 2008 e il 2009. Quell'operazione provocò una certa condanna da parte del mondo occidentale, ingannato da una astuta propaganda della stampa araba. Le Nazioni Unite promossero un'inchiesta, affidata al giudice sudafricano Goldstone, il quale emise una frettolosa quanto vergognosa condanna, che in seguito ritrasse imbarazzato dalle colonne del New York Times: «se avessi saputo ciò che so oggi, non avrei emesso quel rapporto», ammise tardivamente Goldstone. Frustrata dalla mancata condanna della legittima iniziativa israeliana, la leadership palestinese di stanza a Ramallah ha sollecitato l'intervento della ICC, la quale però ha rilevato di non avere alcuna giurisdizione, in quanto l'entità agente non può configurarsi come uno stato.
Ci si aspetterebbe un mea culpa da parte della stampa occidentale, che a suo tempo enfatizzò l'iniziativa velleitaria di Abu Mazen. Dubito che ciò avverrà. Spero che quantomeno questa ennesimo monito ad iniziative unilaterali estemporanee induca la leadership palestinese a tornare al tavolo dei negoziati, unica strada verso il mutuo riconoscimento. E' tempo che nasca uno stato palestinese; a condizione che i palestinesi lo vogliano.