di Jerold S. Auerbach*
Il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, in carica per il decimo anno di un mandato di quattro anni, di recente ha diffamato il governo israeliano, bollandolo come «di apartheid». Parlando al Cairo nell'ambito di una riunione di emergenza della Lega Araba, ha sentenziato: «non riconosceremo mai l'ebraicità dello stato di Israele». Abbas appare vistosamente disturbato dal disegno di legge "stato ebraico", proposto dal Primo Ministro Netanyahu, che identificherebbe Israele come «lo stato-nazione del popolo ebraico». Nessuna nazione araba del Medio Oriente immaginerebbe mai, ne' tantomeno proporrebbe, una normativa che prevede un così ampio spettro di diritti e tutele per le minoranze religiose, culturali ed etniche, come si appresterebbe a fare Israele. Gli ebrei, tanto per dire, da decenni sono stati sbattuti fuori dalle loro abitazioni e privati di ogni bene da regimi palesemente antisemiti.
Abbas è l'ultimo a poter formulare accuse di apartheid. Come è noto, la sua tesi di laurea sosteneva che i sionisti fossero collusi con il regime criminale nazista. Più volte si è cimentato in oltraggiosi giri di parole a proposito dell'Olocausto: pur avendolo etichettato come «odioso crimine», ha ripetutamente additato i "sionisti" come corresponsabili per la morte di un milione (sic! non sei milioni!) di ebrei. In più occasioni il boss palestinese ha promesso che non un solo ebreo metterà piede in quello che si avvia a diventare un razzista stato di Palestina, se e quando sarà costituito. E tuttora supporto la famigerata risoluzione ONU del 1975, secondo cui il sionismo sarebbe una forma di razzismo; benché quella risoluzione sia stata ritirata 16 anni dopo.
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martedì 16 dicembre 2014
Denunciamo tutti l'apartheid in Medio Oriente!
domenica 23 novembre 2014
Un'apartheid scomodo da denunciare
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Lo squallore del campo profughi di Yarmouk, in Siria |
Questa riflessione di Khaled Abu Toameh, premiato e stimato giornalista arabo israeliano, è stata vergata alcuni anni fa; ma è sempre attuale: specie se si considera che fu pubblicata a marzo 2010, esattamente un anno prima della guerra civile che in Siria ha provocato oltre 200.000 vittime. Un sanguinoso genocidio, che non ha risparmiato oltre 9.000 bambini, secondo stime delle stesse Nazioni Unite; e almeno 2.400 palestinesi: tutti civili, e molti più di quelli addebitati da Hamas a Gerusalemme, nell'ambito dell'ultima guerra di Gaza.
di Khaled Abu Toameh*
Come mai gli studenti libanesi che di recente hanno accusato Israele di "crimini di guerra" nella Striscia di Gaza, non hanno nulla da dire a proposito del fatto che diecine di migliaia di palestinesi sono stati massacrati in Libano negli ultimi quarant'anni?
Diecine di rifugiati sono stati uccisi, e centinaia feriti nell'offensiva di tre mesi che ha distrutto altresì migliaia di abitazioni nei campi profughi. I giornalisti presenti affermano che si tratta della peggiore ondata di violenze interne in Libano da quando il "paese dei cedri" fu flagellato dalla guerra civile del 1975-1990. Appena tre anni fa, l'esercito del Libano impiegava l'artiglieria pesante per bombardare il campo rifugiati di Nahr-al-Bared, nel Libano settentrionale.
Eppure non si ode alcuna voce di condanna dal Palazzo di Vetro, rivolta verso la Siria o il Libano per le orrende atrocità commesse, o per le discriminazioni ai danni dei palestinesi.
venerdì 21 novembre 2014
Mi dicono che in Israele c'é l'apartheid: è vero?
Sono orgoglioso di proporre la trascrizione di un intervento che la maestra e amica - in ordine di tempo - Barbara ha tenuto ad Udine, nell'ambito di una conferenza patrocinata dalla locale università.
Sebbene si tratti di riflessioni note ai più, tutt'oggi il vecchio cliché dell'apartheid imperante in Israele è duro a morire. Una simile strampalata accusa incoraggia e compatta il fronte degli irriducibili antisemiti; e fa ridere chi vanta una minima conoscenza dei fatti. Ma non sempre si hanno sotto mano dati e informazioni che smentiscano questo assunto.
Come è noto, Israele è stato inizialmente osservato con tiepida positività dall'ambiente della Sinistra mondiale: l'URSS considerava lo stato ebraico un ostacolo all'influenza americana in Medio Oriente. L'atteggiamento dell'universo progressista è mutato dopo la guerra scatenata dalle potenze arabe nel 1967, conclusasi con la sorprendente affermazione schiacciante di Israele; e soprattutto all'indomani della vergognosa risoluzione ONU 3379 del 1975, poi ritirata.
Malgrado alcune aperture, larghi strati dell'opinione pubblica sono rimasti vincolati ad uno schema mentale viziato sotto diversi aspetti; condizionati da una propaganda facilmente smontabile. Mi fa piacere lasciare a Barbara lo spazio necessario a chiarire definitivamente come non vi sia altro stato al mondo dove la convivenza fra diverse razze, diverse culture, diverse lingue e diverse religioni sia pacifica, armoniosa e caratterizzata da gioiosa accettazione e convinta tolleranza.
Sebbene si tratti di riflessioni note ai più, tutt'oggi il vecchio cliché dell'apartheid imperante in Israele è duro a morire. Una simile strampalata accusa incoraggia e compatta il fronte degli irriducibili antisemiti; e fa ridere chi vanta una minima conoscenza dei fatti. Ma non sempre si hanno sotto mano dati e informazioni che smentiscano questo assunto.
Come è noto, Israele è stato inizialmente osservato con tiepida positività dall'ambiente della Sinistra mondiale: l'URSS considerava lo stato ebraico un ostacolo all'influenza americana in Medio Oriente. L'atteggiamento dell'universo progressista è mutato dopo la guerra scatenata dalle potenze arabe nel 1967, conclusasi con la sorprendente affermazione schiacciante di Israele; e soprattutto all'indomani della vergognosa risoluzione ONU 3379 del 1975, poi ritirata.
Malgrado alcune aperture, larghi strati dell'opinione pubblica sono rimasti vincolati ad uno schema mentale viziato sotto diversi aspetti; condizionati da una propaganda facilmente smontabile. Mi fa piacere lasciare a Barbara lo spazio necessario a chiarire definitivamente come non vi sia altro stato al mondo dove la convivenza fra diverse razze, diverse culture, diverse lingue e diverse religioni sia pacifica, armoniosa e caratterizzata da gioiosa accettazione e convinta tolleranza.
venerdì 28 marzo 2014
I "muri dell'apartheid" di cui non si parla
Da sempre le comunità minacciate da aggressioni esterne si proteggono ereggendo barriere difensive. Nel 1953 il governatore di New Amsterdam, che più tardi avrebbe cambiato nome in New York in onore del duca di York, concluse che si rendeva necessario costruire un muro di legno - alto 3,65 metri e lungo più di 400 metri - che proteggesse i coloni olandesi delle Nuove Olande dalle tribù indigene e dai vicini colonizzatori inglesi. Per ovvie ragioni, la strada che delimitava quella zona fu ribattezzata Wall Street.
Questa sana abitudine non è stata perduta nei secoli successivi, ne' ha quasi mai scatenato ostilità e disapprovazione. Nessuno ha nulla da obiettare nei confronti del muro che separa Stati Uniti e Messico, costruito in funzione anti-immigrazione clandestina; o di quello che protegge l'enclave spagnola di Ceuta nel territorio marocchino. C'é poi il muro che divide Corea del Nord e Corea del Sud, o ancora l'Oman dagli Emirati Arabi. Uno studio pubblicato lo scorso anno, censisce diecine di muri in tutto il mondo, spesso ignoti ai più, o trascurati per il loro scarso appeal politico-ideologico.
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sabato 27 aprile 2013
C'è apartheid in Israele (e magari qualcuno ci crede)

Per convincere il lettore di questa strampalata accusa, la pagina in questione mostra l'immagine di un ebreo ortodosso che solidarizzerebbe con i palestinesi, dopo un energico trattamento subito dalle forze di sicurezza israeliane: «se io, che sono ebreo, sono trattato così brutalmente, chissà quale deve essere il trattamento riservato ai palestinesi», argomenta il nostro malcapitato amico.
lunedì 25 marzo 2013
Intolleranza e apartheid

Lina Makhoul, 19 anni, ha appena trionfato nell'edizione 2013 di "The Voice", format canoro olandese. La particolarità? la vincitrice è araba. Un'araba israeliana, come il 20% della popolazione dello stato ebraico. Probabilmente negli stati arabi confinanti una cantante cristiana, o ebrea, o drusa, o di qualunque altra religione, non potrebbe mai esibirsi su un palcoscenico, senza correre rischi per la propria vita. In Israele non è così. E forse è per questo che Gerusalemme rappresenta una spina nel fianco degli stati confinanti: Israele è paladina del rispetto delle minoranze, esempio di tolleranza e di libertà, malvisto da regimi dispotici e oscurantisti.
Mentre Lina trionfava nel reality show canoro, poco lontano Cristiano Ronaldo, delizioso con il suo gioco di gambe quanto maldestro con le sue affermazioni, perdeva la testa commettendo un fallo grossolano. Alla fine dell'incontro Israele-Portogallo, valido per la qualificazione ai Mondiali di Brasile 2014, CR7 ha platealmente rifiutato lo scambio della propria maglia con quella di un avversario. Secondo l'agenzia iraniana Irib, un giornalista di Al Jazeera avrebbe avvicinato il fenomeno in campo chiedendo una localizzazione in tempo reale; al che Ronaldo avrebbe dichiarato di sentirsi in "palestina", e non in Israele.
Sentivamo proprio la mancanza di una prova eclatante di queste manifestazioni di intelligenza. Per conseguire la pace, gli sforzi devono essere molteplici. Serve a poco, se a fronte della tolleranza in Israele, altrove regna l'apartheid.

II aggiornamento (ore 20 del 26/03). La storiella di Ronaldo che sragiona era una bufala. Probabilmente messa in giro dai soggetti citati o da ambienti ad essi vicini. Perchè? perché CR7 in Israele è stato benissimo. Al punto da rendere disponibile le foto della sua splendida giornata sulle spiagge di Tel Aviv. Un affronto intollerabile per chi è impegnato tutti i giorni a calunniare lo stato ebraico, disinteressandosi di tutto il resto. E siccome era insopportabile l'immagine di un personaggio pubblico che conduceva una vita normale in Israele, ecco che quei mattacchioni ti tirano fuori questa bufala. Ad uso e consumo dei polli. Chicchirichì!
venerdì 1 marzo 2013
Di giorno deputato, di notte terrorista
Come riferisce Al Monitor, Tibi è appena tornato da Ramallah - dove ha partecipato ad un reality show - nella sua abitazione nei sobborghi di Gerusalemme. Tibi esulta alla notizia delle sommosse e manifestazioni alimentate e incoraggiate dall'OLP nel West Bank: la speranza è che i disordini, i danneggiamenti, le aggressioni, facciano scoccare la scintilla che accenda la terza intifada, dopo quella del 1987 e del 2000. E pazienza se morti e feriti saranno contati da ambo le parti: tanto gli ebrei resterano sul selciato; mentre gli arabi avranno l'onore di ascendere al paradiso di Allah.
giovedì 28 febbraio 2013
Questo è apartheid?

Splendida visione per gli occhi. Brutto colpo per i detrattori dello stato ebraico, e per i residui sostenitori della strampalata accusa di apartheid. Bisognerà inventarsi qualche altra frottola. Ma tanto, ormai, chi ci crede più?
Nel filmato, i momenti finali del concorso di bellezza, con la premiazione della vincitrice a 1h20' del filmato.
giovedì 14 febbraio 2013
Chi sottrae l'acqua ai palestinesi?

La domanda che frequentemente si pone è: «se i loro fratelli arabi e musulmani nell'area si sentono così legati al popolo palestinese, come mai non sono stati investiti milioni in progetti di sviluppo finalizzati ad alleviare le condizioni di povertà nella Striscia di Gaza?» Al che qualcuno si lagna: «ma... ma... ma Israele?!"...». Una argomentazione futile sul piano teorico come nella pratica. Ma bisogna partire dall'inizio, perché la disinformazione propagandata dai delegittimatori dello stato ebraico spesso conduce ad errate convinzioni, che si radicano nella mente di giornalisti, attivisti e soprattutto politici. Nel frattempo, sarà utile dare un'occhiata a cosa entra a Gaza da Israele qui e qui.
Come è possibile che sia stata presentata al parlamento britannico una mozione che accusa il governo israeliano per una situazione che già nel 2009 era denunciata dalla Banca Mondiale come insostenibile? con la precisazione che la Banca Mondiale non biasimava Israele, mentre un rapporto delle Nazioni Unite affermava testualmente che mentre l'Operazione Piombo Fuso esasperava i problemi già esistenti, gli stessi erano «riconducibili a mancanza di investimenti nella tutela dell'ambiente e al collasso del meccanismo di governo».
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mercoledì 13 febbraio 2013
La pace si scorge dai piccoli gesti

Questa dolorosa consapevolezza ha spinto le autorità locali della Samaria, in Cisgiordania, ad allestire un cartello che segnalerà agli automobilisti la presenza di teppisti e terroristi intenti a scagliare pietre e bottiglie incendiarie all'indirizzo dei malcapitati; ebrei, s'intende. I primi cartelli saranno situati sulla statale 55, che costeggia il villaggio arabo di Azzun, dove diversi "incidenti" di questo genere sono stati registrati. Venerdì scorso una donna, incinta di sette mesi, è stata aggredita da una roccia che si è conficcata nel parabrezza, il quale fortunosamente non si è disintegrato. La donna ha riportato ferite ma non è morta.
Queste manifestazioni di aperta ostilità non impediscono che fra israeliani e palestinesi si registrino episodi di pace e di serenità. Nell'ultima settimana è stata irrobustito il cablaggio che da Israele fornisce (gratuitamente) energia elettrica alla parte settentrionale della Striscia di Gaza, dove risiedono oltre 70 mila abitanti. I nuovi impianti forniscono 12.5 megawatt al giorno e sono stati allestiti da una squadra di 15 tecnici della Israeli Electric Corporation (IEC), assistita dall'esercito che ha prevenuto episodi di teppismo se non di accesa ostilità: malgrado questo generoso sforzo, non pochi palestinesi nel passato hanno assaltato le cabine mobili dell'IEC con pietre ed altri oggetti contundenti.
Attendiamo fiduciosi che simili episodi di altruismo siano registrati sull'altro fronte. Qualche giorno fa ha commoso la fotografia che ritraeva un soldato dell'IDF intento ad aiutare in un centro commerciale una donna palestinese, non vedente. Gli odiatori di Israele invece ci vedono benissimo.

mercoledì 30 gennaio 2013
F.R.I.E.N.D.S.
Ma quali elezioni politiche?! gli italiani in questo momento si dividono fra la boriosità di Tiziana, l'avvocato romano che cerca di realizzarsi al di fuori dei tribunali, la simpatia di Ivan, outsider che per certi versi ricorda lo Spyros della prima edizione, la creatività di Maurizio, il salutismo di Paola e l'onestà di Andrea.
Per i pochi che non lo sapessero, stiamo parlando di Masterchef Italia, il cooking show trasmesso su Sky e giunto alla seconda edizione. Un format di successo in tutto il mondo in cui è stato trasmesso: negli Stati Uniti, in Australia, nel Regno Unito, in Germania, Francia e tanti altri stato. Incluso Israele.
E qui c'è da mettere mano ai fazzoletti, perché MC Israel, giunto alla terza edizione, ha mostrato ancora una volta la straordinaria tolleranza e apertura di questo paese. I tre finalisti sono Tom, nato in Germania ma convertosi al giudaismo; Jacky, una ebrea ortodossa; e Salma, araba israeliana.
Per i pochi che non lo sapessero, stiamo parlando di Masterchef Italia, il cooking show trasmesso su Sky e giunto alla seconda edizione. Un format di successo in tutto il mondo in cui è stato trasmesso: negli Stati Uniti, in Australia, nel Regno Unito, in Germania, Francia e tanti altri stato. Incluso Israele.
E qui c'è da mettere mano ai fazzoletti, perché MC Israel, giunto alla terza edizione, ha mostrato ancora una volta la straordinaria tolleranza e apertura di questo paese. I tre finalisti sono Tom, nato in Germania ma convertosi al giudaismo; Jacky, una ebrea ortodossa; e Salma, araba israeliana.
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mercoledì 7 novembre 2012
Un esempio per tutto il Medio Oriente (e non solo)
Il Guardian ci ha abituati a prese di posizione piuttosto rocambolesche, incomprensibili e fuori da ogni logica. Il capolavoro di queste analisi dell'assurdo è la sezione "Comment is free": una specie di speakers' corner, dove buontemponi e ciarlatani sono liberi di esprimere la loro opinione, pur se estrema e fuori dal mondo; il tutto, in nome della libertà di pensiero e di espressione.
Capita così di leggere i deliri di tale Jamal Zahalka, che censura senza appello il patto elettorale stretto di recente fra il partito del primo ministro israeliano (Likud) e quello (Israel Beiteinu) del suo principale alleato, attuale ministro degli esteri dello stato ebraico, in vista delle elezioni generali che si terranno a gennaio. Un cartello elettorale che in nessun altro stato al mondo solleverebbe obiezioni; ma che al signor Zahalka proprio non va giù. Al punto da chiedere addirittura sanzioni e boicottaggi: ancor prima che il nuovo eventuale governo sia formato, e che prenda un qualsiasi provvedimento.
Censura preventiva. L'opposto di quanto auspicherebbe la sezione che ospita il suo intervento. Ma qual è la ragione di tanta acredine?
Jamal Zahalka è un membro della Knesset. Insomma, un parlamentare israeliano. Arabo. Lo si apprende dal suo profilo creato per l'occorrenza sul sito del Guardian. La conferma, sul sito istituzionale della Knesset.
Ora, non importa quante strambe e fuori dal mondo siano le prese di posizione di questo parlamentare, improvvisatosi per l'occasione editorialista malriuscito. L'aspetto rilevante è che la democrazia israeliana è talmente robusta e moderna da dare voce anche a chi ne auspicherebbe la disgregazione. E' il caso di Jamal Zahalka; ma anche per esempio di Haneen Zoabi, il deputato arabo che nel 2010 prese parte alla spedizione della Mavi Marmara; o di Ahmed Tibi, che non perde occasione per esaltare il "martirio" dei terroristi palestinesi. Poco conta che si tratti di apologio di reato, di istigazione al suicidio e all'omicidio; e si può sorvolare sul fatto che questi parlamentari siano liberissimi di incontrarsi con esponenti di organizzazioni terroristiche bandite in tutto il mondo civile.
In un'area dove la repressione diventa sempre più brutale, dove le minoranze sono ostracizzate, minacciate, intimidite e non di rado percosse fino alla morte; in un'area dove la democrazia e la libertà di pensiero sono sempre più a rischio, fa piacere rilevare che esista uno stato - uno solo - dove le libertà individuali sono incoraggiate fin quasi all'autolesionismo. Sarebbe bello apprendere di parlamentari ebrei liberi di manifestare la loro indignazione in Iran; o deputati cristiani sollevarsi contro l'oppressione in Egitto; o esponenti politici di sesso femminile che possano prendere liberamente la parola nel mondo arabo; ma questo fa parte al giorno d'oggi del mondo dei sogni.
H/t: Honest Reporting.
Capita così di leggere i deliri di tale Jamal Zahalka, che censura senza appello il patto elettorale stretto di recente fra il partito del primo ministro israeliano (Likud) e quello (Israel Beiteinu) del suo principale alleato, attuale ministro degli esteri dello stato ebraico, in vista delle elezioni generali che si terranno a gennaio. Un cartello elettorale che in nessun altro stato al mondo solleverebbe obiezioni; ma che al signor Zahalka proprio non va giù. Al punto da chiedere addirittura sanzioni e boicottaggi: ancor prima che il nuovo eventuale governo sia formato, e che prenda un qualsiasi provvedimento.
Censura preventiva. L'opposto di quanto auspicherebbe la sezione che ospita il suo intervento. Ma qual è la ragione di tanta acredine?
Jamal Zahalka è un membro della Knesset. Insomma, un parlamentare israeliano. Arabo. Lo si apprende dal suo profilo creato per l'occorrenza sul sito del Guardian. La conferma, sul sito istituzionale della Knesset.
Ora, non importa quante strambe e fuori dal mondo siano le prese di posizione di questo parlamentare, improvvisatosi per l'occasione editorialista malriuscito. L'aspetto rilevante è che la democrazia israeliana è talmente robusta e moderna da dare voce anche a chi ne auspicherebbe la disgregazione. E' il caso di Jamal Zahalka; ma anche per esempio di Haneen Zoabi, il deputato arabo che nel 2010 prese parte alla spedizione della Mavi Marmara; o di Ahmed Tibi, che non perde occasione per esaltare il "martirio" dei terroristi palestinesi. Poco conta che si tratti di apologio di reato, di istigazione al suicidio e all'omicidio; e si può sorvolare sul fatto che questi parlamentari siano liberissimi di incontrarsi con esponenti di organizzazioni terroristiche bandite in tutto il mondo civile.
In un'area dove la repressione diventa sempre più brutale, dove le minoranze sono ostracizzate, minacciate, intimidite e non di rado percosse fino alla morte; in un'area dove la democrazia e la libertà di pensiero sono sempre più a rischio, fa piacere rilevare che esista uno stato - uno solo - dove le libertà individuali sono incoraggiate fin quasi all'autolesionismo. Sarebbe bello apprendere di parlamentari ebrei liberi di manifestare la loro indignazione in Iran; o deputati cristiani sollevarsi contro l'oppressione in Egitto; o esponenti politici di sesso femminile che possano prendere liberamente la parola nel mondo arabo; ma questo fa parte al giorno d'oggi del mondo dei sogni.
H/t: Honest Reporting.
martedì 30 ottobre 2012
Sempre più palestinesi vogliono diventare israeliani
di Khaled Abu Toamheh*
Non si può negare che richiedendo la cittadinanza israeliana, sfidando i moniti dell'OLP e di Hamas, i palestinesi intendano vivere sotto la giurisdizione israeliana, anziché quella araba. L'Autorità Palestinese (AP) si mostra preoccupata per il crescente numero di palestinesi di Gerusalemme che richiedono la cittadinanza israeliana. Hatem Abdel Kader, residente nel West Bank governata da Al Fatah, ma in possesso di "passaporto di Gerusalemme", ha rivelato che più di 10 mila palestinesi di Gerusalemme hanno ottenuto la cittadinanza israeliana. E attribuisce questo crescente fenomeno al fallimento del progetto dell'AP e all'incapacità dei paesi arabi e islamici di supportare concretamente i residenti arabi di Gerusalemme.
In altre parole, egli riconosce che Israele fa per i palestinesi molto più di quello che la leadership palestinese e l'intero mondo arabo e islamico ha fatto per essi.
Secondo le statistiche rese note dal Ministero degli Interni, nell'ultimo decennio 3.374 palestinesi hanno ottenuto la cittadinanza israeliana; con un trend esponenziale negli ultimi due anni. I palestinesi che vivono a Gerusalemme godono della condizione di residenti permanenti in Israele. Ciò consente loro di possedere una documento di identità israeliano, sebbene non possano ottenere un passaporto. In altre parole, godono di tutti i diritti dei cittadini israeliani, con l'unica eccezione rappresentata dalla possibilità di votare alle elezioni generali.
La legge israeliana consente a tutti di richiedere la cittadinanza. Eppure, nei primi vent'anni dopo la riunificazione di Gerusalemme del 1967, pochi palestinesi ne fecero richiesta: all'epoca, ciò era considerato un gesto di tradimento; e l'OLP, aperta minacciava i palestinesi che valutavano di agire in tal senso.
Ma la tendenza è mutata dopo la sottoscrizione degli Accordi di Oslo del 1993, e con la nascita dell'Autorità Palestinese dell'anno successivo: d'un tratto, il numero di richiedenti è aumentato esponenzialmente, con i palestinesi che non hanno più mostrato timore o vergogna nel presentarsi agli uffici competenti del Ministero degli Interni per richiedere la cittadinanza israeliana. Il principale motivo addotto è il timore che Israele possa cedere la sovranità di Gerusalemme Est all'AP: ciò li priverebbe di tutti i privilegi goduti in quanto residenti sotto la giurisdizione israeliana, inclusi l'accesso alla sanità e all'istruzione pubblica, nonché la libertà di movimento e di lavorare.
Inoltre, i palestinesi di Gerusalemme realizzano che malgrado le difficoltà che incontrano in Israele, le loro condizioni di vita risultano di gran lunga migliori di quelle di cui godrebbero se vivessero sotto la giurisdizione dell'AP. La mancanza di democrazia e la massiccia corruzione inducono altresì molti palestinesi a richiedere la cittadinanza israeliana, come modo per garantirsi un futuro sotto la sovranità dello stato ebraico: come ha efficacemente riassunto un palestinese: «preferisco vivere nell'inferno degli ebrei, che nel paradiso di Hamas o di Arafat».
Un altra ragione per cui i palestinesi si affrettano a richiedere la cittadinanza israeliana è il timore che le autorità possano loro revocare il documento di identità israeliano: secondo la normativa, gli arabi che risiedono a Gerusalemme, e che vanno a vivere al di fuori dello stato, perdono automaticamente il loro status di residenti permanenti. Negli ultimi dieci anni, in effetti, molti residenti palestinesi che sono andati a vivere nel West Bank hanno perso la loro carta d'identità israeliana.
Molti di coloro che hanno richiesto la cittadinaza israeliana sono cristiani di Gerusalemme, timorisi di finire sotto la giurisdizione palestinese o addirittura sotto Hamas.
Ironicamente, ottenere la cittadinanza israeliana è stato un modo agevole per gli arabi per assicurarsi i diritti sociali, economici, sanitari e di istruzione che solo questo stato garantisce in questa estensione. Non vi è dubbio che richiedere la cittadinanza israeliana, in contrasto con le raccomandazioni di Hamas e dell'OLP, sia una affermazione politica di principio da parte dei richiedenti, i quali ammettono di preferire di vivere sotto la giurisdizione israeliana, anziché sotto quella araba.
* Gatestone Institute International Policy Council
Mentre c'é ancora chi sostiene la tesi oltraggiosa - ma ormai più ridicola: non ci crede più nessuno - dell'apartheid in Israele; un volo charter ha appena trasportato 240 immigrati africani nello stato ebraico. Il volo è il primo di una serie, facente parte del programma "Dove’s Wings", un'iniziativa pubblica che favirirà l'aliyah delle comunità ebraiche dell'Etiopia, convertite con la forza al cristianesimo durante il 19esimo e 20esimo secolo.
Il programma, da 17.5 milioni di shekel israeliani, sarà completato entro un anno. Già ieri sono sbarcati a Tel Aviv i primi, simpatici, nuovi cittadini israeliani.
Non si può negare che richiedendo la cittadinanza israeliana, sfidando i moniti dell'OLP e di Hamas, i palestinesi intendano vivere sotto la giurisdizione israeliana, anziché quella araba. L'Autorità Palestinese (AP) si mostra preoccupata per il crescente numero di palestinesi di Gerusalemme che richiedono la cittadinanza israeliana. Hatem Abdel Kader, residente nel West Bank governata da Al Fatah, ma in possesso di "passaporto di Gerusalemme", ha rivelato che più di 10 mila palestinesi di Gerusalemme hanno ottenuto la cittadinanza israeliana. E attribuisce questo crescente fenomeno al fallimento del progetto dell'AP e all'incapacità dei paesi arabi e islamici di supportare concretamente i residenti arabi di Gerusalemme.
In altre parole, egli riconosce che Israele fa per i palestinesi molto più di quello che la leadership palestinese e l'intero mondo arabo e islamico ha fatto per essi.
Secondo le statistiche rese note dal Ministero degli Interni, nell'ultimo decennio 3.374 palestinesi hanno ottenuto la cittadinanza israeliana; con un trend esponenziale negli ultimi due anni. I palestinesi che vivono a Gerusalemme godono della condizione di residenti permanenti in Israele. Ciò consente loro di possedere una documento di identità israeliano, sebbene non possano ottenere un passaporto. In altre parole, godono di tutti i diritti dei cittadini israeliani, con l'unica eccezione rappresentata dalla possibilità di votare alle elezioni generali.
La legge israeliana consente a tutti di richiedere la cittadinanza. Eppure, nei primi vent'anni dopo la riunificazione di Gerusalemme del 1967, pochi palestinesi ne fecero richiesta: all'epoca, ciò era considerato un gesto di tradimento; e l'OLP, aperta minacciava i palestinesi che valutavano di agire in tal senso.
Ma la tendenza è mutata dopo la sottoscrizione degli Accordi di Oslo del 1993, e con la nascita dell'Autorità Palestinese dell'anno successivo: d'un tratto, il numero di richiedenti è aumentato esponenzialmente, con i palestinesi che non hanno più mostrato timore o vergogna nel presentarsi agli uffici competenti del Ministero degli Interni per richiedere la cittadinanza israeliana. Il principale motivo addotto è il timore che Israele possa cedere la sovranità di Gerusalemme Est all'AP: ciò li priverebbe di tutti i privilegi goduti in quanto residenti sotto la giurisdizione israeliana, inclusi l'accesso alla sanità e all'istruzione pubblica, nonché la libertà di movimento e di lavorare.
Inoltre, i palestinesi di Gerusalemme realizzano che malgrado le difficoltà che incontrano in Israele, le loro condizioni di vita risultano di gran lunga migliori di quelle di cui godrebbero se vivessero sotto la giurisdizione dell'AP. La mancanza di democrazia e la massiccia corruzione inducono altresì molti palestinesi a richiedere la cittadinanza israeliana, come modo per garantirsi un futuro sotto la sovranità dello stato ebraico: come ha efficacemente riassunto un palestinese: «preferisco vivere nell'inferno degli ebrei, che nel paradiso di Hamas o di Arafat».
Un altra ragione per cui i palestinesi si affrettano a richiedere la cittadinanza israeliana è il timore che le autorità possano loro revocare il documento di identità israeliano: secondo la normativa, gli arabi che risiedono a Gerusalemme, e che vanno a vivere al di fuori dello stato, perdono automaticamente il loro status di residenti permanenti. Negli ultimi dieci anni, in effetti, molti residenti palestinesi che sono andati a vivere nel West Bank hanno perso la loro carta d'identità israeliana.
Molti di coloro che hanno richiesto la cittadinaza israeliana sono cristiani di Gerusalemme, timorisi di finire sotto la giurisdizione palestinese o addirittura sotto Hamas.
Ironicamente, ottenere la cittadinanza israeliana è stato un modo agevole per gli arabi per assicurarsi i diritti sociali, economici, sanitari e di istruzione che solo questo stato garantisce in questa estensione. Non vi è dubbio che richiedere la cittadinanza israeliana, in contrasto con le raccomandazioni di Hamas e dell'OLP, sia una affermazione politica di principio da parte dei richiedenti, i quali ammettono di preferire di vivere sotto la giurisdizione israeliana, anziché sotto quella araba.
* Gatestone Institute International Policy Council
Mentre c'é ancora chi sostiene la tesi oltraggiosa - ma ormai più ridicola: non ci crede più nessuno - dell'apartheid in Israele; un volo charter ha appena trasportato 240 immigrati africani nello stato ebraico. Il volo è il primo di una serie, facente parte del programma "Dove’s Wings", un'iniziativa pubblica che favirirà l'aliyah delle comunità ebraiche dell'Etiopia, convertite con la forza al cristianesimo durante il 19esimo e 20esimo secolo.
Il programma, da 17.5 milioni di shekel israeliani, sarà completato entro un anno. Già ieri sono sbarcati a Tel Aviv i primi, simpatici, nuovi cittadini israeliani.
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domenica 27 maggio 2012
Ancora si parla di apartheid?
L'accusa di apartheid, che ancora oggi viene da taluni mossa nei confronti di Israele, fa ridere chi abbia un minimo di conoscenza della storia. Grottesco che si accusi lo stato ebraico di discriminazioni verso le minoranze; verso i neri: in uno stato che con le operazioni «Salomone» e «Mosé» è andato a prendersi i suoi neri in Etiopia e in Sudan; verso gli arabi, che rappresentano oltre il 20% della popolazione israeliana, e che partecipa pienamente e attivamente alla vita civile, politica e sociale di Israele.
Questa accusa, tanto superficiale quanto infame, poggia su una sciagurata risoluzione ONU del 1975, che considerava il Sionismo una forma di razzismo. Tale risoluzione è stata revocata dalle Nazioni Unite nel 1991; ma dopo più di vent'anni, quell'assurdo principio trova ancora ospitalità nelle menti di persone in malafade; sempre meno, onestamente. Ma sempre rumorose. Per questo, un paio di appunti possono giovare ad integrare quanto già detto in passato in questa sede.
di Dan Calic
Il termine "stato di apartheid", applicato ad Israele, ha guadagnato notorietà soprattutto dopo la pubblicazione nel 2006 del libro dell'ex presidente USA Jimmy Carter "Israele: pace, no apartheid". Il termine si riferisce alla condizione esistita in Sudafrica, dove una minoranza bianca pari al 20% della popolazione controllava la maggioranza nera attraverso un regime brutale e aggressivo, che includeva leggi segregazioniste e una polizia che sistematicamente picchiava e uccideva i neri godendo di impunità. I neri non godevano di diritto di voto e non potevano gestire attività commerciali.
Chi ha parlato di apartheid per Israele non ha colto il significato di questo termine, mancando di rilevare circostanze così fondamentali nel comparare queste realtà, che l'uso di questo termine risulta seriamente discutibile. Come si spiega il fatto che tutti i popoli chiamano "patria" la loro nazione, ma questo è giudicato razzismo se a farlo sono gli ebrei?
Un altro fatto taciuto riguarda gli arabi che vivono in Israele: ben contenti di farlo. Essi votano, hanno proprietà e attività commerciali, e non sanno cos'é la segregazione. Vivere in Israele è così allettante che in un paio di occasioni, quando l'Autorità Palestinese ha minacciato di annettere i quartieri orientali di Gerusalemme, l'ufficio israeliano per l'immigrazione è stato sommerso da richieste di arabi per ottenere la cittadinanza israeliana: nel timore di poter diventare cittadini arabi (palestinesi, NdT) dalla sera alla mattina.
Di converso, i neri del Sudafrica di sicuro non facevano la fila presso gli uffici governativi, costretti alla disperazione di essere soggiogati sotto il regime di apartheid. Qui l'apartheid era una escrescenza del Commonwealth britannico. Lo scopo era quello di garantire il controllo da parte dei bianchi. Nel caso di Israele la sua istituzione è stata garantito da un voto favorevole del 72% dei membri delle Nazioni Unite. Gli arabi nel frattempo avevano già ricevuto quasi il 90% delle terre originariamente ritagliato dal mandato britannico per farne la patria del popolo ebraico. Ma lungi dall'accettare una partizione estremamente vantaggiosa, gli arabi respinsero la proposta, e attaccarono Israele 24 ore dopo la proclamazione dello stato.
Da allora, la distruzione di Israele è stata l'ossessione del mondo arabo. Gruppi come l'OLP, Hamas, Fatah e Hezbollah sono stati costituiti, ciascuno con l'imperativo di distruggere Israele e sradicare il Sionismo, ben impresso nei rispettivi statuti. Da quando è stato proclamato lo stato ebraico, attacchi terroristici sono stati scagliati nei confronti delle famiglie israeliane. Fra il 1948 e il 1999, circa 2.000 israeliani hanno perso la vita per mano dei terroristi, per una media di 43 omicidi all'anno. Per sopperire a questo stillicidio, nel 2000 è stata avviata la costruzione della barriera di sicurezza: fu l'anno in cui partì la "seconda Intifada". Quell'anno vide una impennata delle morti di civili, da una media di 43 a 288 all'anno, fino al 2003, quando il primo stadio della costruzione della barriera di sicurezza fu portato a termine. Sembra che i detrattori di Israele trascurino questa escalation di uccisioni quando puntano il dito contro il "muro dell'apartheid"...
Oggi la barriera di protezione è completa per quasi il 70%, e il numero di attentati si è drasticamente ridotto. Ciò malgrado, i leader arabi continuano a lodare come eroi gli assassini, intitolando strade e piazze a loro nome. Quando una figura di spicco come il leader palestinese Mahmoud Abbas onora pubblicamente i terroristi omocidi, fa meraviglia che lo stato ebraico prenda contromisure per proteggere le proprie famiglie costruendo una barriera di sicurezza?
Nel tentativo di assicurare la sopravvivenza dell'unico stato al mondo per il popolo ebraico, di fronte agli arabi che sono teologicamente, politicamente e culturalmente impegnati nella sua distruzione, Israele è stato etichettato come "stato di apartheid". Per inciso, anche coloro che formulano questa accusa a loro volta si può dire che possano essere analogamente etichettati: come anti-semiti.
Fonte: Yedioth Ahronoth
Questa accusa, tanto superficiale quanto infame, poggia su una sciagurata risoluzione ONU del 1975, che considerava il Sionismo una forma di razzismo. Tale risoluzione è stata revocata dalle Nazioni Unite nel 1991; ma dopo più di vent'anni, quell'assurdo principio trova ancora ospitalità nelle menti di persone in malafade; sempre meno, onestamente. Ma sempre rumorose. Per questo, un paio di appunti possono giovare ad integrare quanto già detto in passato in questa sede.
di Dan Calic
Il termine "stato di apartheid", applicato ad Israele, ha guadagnato notorietà soprattutto dopo la pubblicazione nel 2006 del libro dell'ex presidente USA Jimmy Carter "Israele: pace, no apartheid". Il termine si riferisce alla condizione esistita in Sudafrica, dove una minoranza bianca pari al 20% della popolazione controllava la maggioranza nera attraverso un regime brutale e aggressivo, che includeva leggi segregazioniste e una polizia che sistematicamente picchiava e uccideva i neri godendo di impunità. I neri non godevano di diritto di voto e non potevano gestire attività commerciali.
Chi ha parlato di apartheid per Israele non ha colto il significato di questo termine, mancando di rilevare circostanze così fondamentali nel comparare queste realtà, che l'uso di questo termine risulta seriamente discutibile. Come si spiega il fatto che tutti i popoli chiamano "patria" la loro nazione, ma questo è giudicato razzismo se a farlo sono gli ebrei?
Un altro fatto taciuto riguarda gli arabi che vivono in Israele: ben contenti di farlo. Essi votano, hanno proprietà e attività commerciali, e non sanno cos'é la segregazione. Vivere in Israele è così allettante che in un paio di occasioni, quando l'Autorità Palestinese ha minacciato di annettere i quartieri orientali di Gerusalemme, l'ufficio israeliano per l'immigrazione è stato sommerso da richieste di arabi per ottenere la cittadinanza israeliana: nel timore di poter diventare cittadini arabi (palestinesi, NdT) dalla sera alla mattina.
Di converso, i neri del Sudafrica di sicuro non facevano la fila presso gli uffici governativi, costretti alla disperazione di essere soggiogati sotto il regime di apartheid. Qui l'apartheid era una escrescenza del Commonwealth britannico. Lo scopo era quello di garantire il controllo da parte dei bianchi. Nel caso di Israele la sua istituzione è stata garantito da un voto favorevole del 72% dei membri delle Nazioni Unite. Gli arabi nel frattempo avevano già ricevuto quasi il 90% delle terre originariamente ritagliato dal mandato britannico per farne la patria del popolo ebraico. Ma lungi dall'accettare una partizione estremamente vantaggiosa, gli arabi respinsero la proposta, e attaccarono Israele 24 ore dopo la proclamazione dello stato.
Da allora, la distruzione di Israele è stata l'ossessione del mondo arabo. Gruppi come l'OLP, Hamas, Fatah e Hezbollah sono stati costituiti, ciascuno con l'imperativo di distruggere Israele e sradicare il Sionismo, ben impresso nei rispettivi statuti. Da quando è stato proclamato lo stato ebraico, attacchi terroristici sono stati scagliati nei confronti delle famiglie israeliane. Fra il 1948 e il 1999, circa 2.000 israeliani hanno perso la vita per mano dei terroristi, per una media di 43 omicidi all'anno. Per sopperire a questo stillicidio, nel 2000 è stata avviata la costruzione della barriera di sicurezza: fu l'anno in cui partì la "seconda Intifada". Quell'anno vide una impennata delle morti di civili, da una media di 43 a 288 all'anno, fino al 2003, quando il primo stadio della costruzione della barriera di sicurezza fu portato a termine. Sembra che i detrattori di Israele trascurino questa escalation di uccisioni quando puntano il dito contro il "muro dell'apartheid"...
Oggi la barriera di protezione è completa per quasi il 70%, e il numero di attentati si è drasticamente ridotto. Ciò malgrado, i leader arabi continuano a lodare come eroi gli assassini, intitolando strade e piazze a loro nome. Quando una figura di spicco come il leader palestinese Mahmoud Abbas onora pubblicamente i terroristi omocidi, fa meraviglia che lo stato ebraico prenda contromisure per proteggere le proprie famiglie costruendo una barriera di sicurezza?
Nel tentativo di assicurare la sopravvivenza dell'unico stato al mondo per il popolo ebraico, di fronte agli arabi che sono teologicamente, politicamente e culturalmente impegnati nella sua distruzione, Israele è stato etichettato come "stato di apartheid". Per inciso, anche coloro che formulano questa accusa a loro volta si può dire che possano essere analogamente etichettati: come anti-semiti.
Fonte: Yedioth Ahronoth
giovedì 12 aprile 2012
La tragedia dell'apartheid in Medio Oriente
Un video che rivela una scomoda quanto ancora ignorata verità: la tragedia dei profughi palestinesi ammassati in luridi campi in Libano, ma anche in Siria, in Egitto e in Giordania. Sono i figli, nipoti e pronipoti degli arabi che furono convinti dalle nazioni confinanti con il neonato stato di Israele nel 1948 ad abbandonare le loro case, dietro promessa pronto ritorno una volta terminata la guerra che di lì a breve gli stati arabi avrebbero scatenato contro Israele. Finì diversamente: lo stato ebraico vinse la guerra del 1948-49, come quella del 1956 (guerra del Sinai), del 1967 (Guerra dei Sei Giorni) e del 1973 (guerra dello Yom Kippur). Gli stati arabi impararono a loro spese che l'aggressione non produceva frutti, e cambiarono strategia, poggiando sulla benevolenza interessata dei media e delle cancellerie occidentali.
Nel frattempo i 500 mila arabi che decisero di lasciare il neonato stato di Israele sono rimasti ammassati nei campi profughi al confine. Senza diritti, senza cittadinanza, senza dignità, senza possibilità di svolgere diversi lavori. Discriminati, marginalizzati, respinti con sdegno dai loro fratelli arabi. Eppure sono nati in questi stati, come lo sono i loro figli e più tardi i figli dei figli: perché non è riconosciuta loro la cittadinanza? E' accettabile che siano impiegati come bomba demografica da scagliare contro Gerusalemme? Fino a quando buona parte dell'Occidente tollererà questo vergognoso stato di apartheid?
P.S.: Notare l'orologio d'oro dell'esponente dell'OLP al minuto 0'52"
martedì 1 novembre 2011
Anche Goldstone ammette: una calunnia parlare di apartheid in Israele
Il giudice sudafricano Richard Goldstone ha ancora molto da farsi perdonare. Salì alla ribalta quando presiedette la commissione ONU incaricata di stabilire le responsabilità di palestinesi e israeliani ai tempi dell'operazione "Piombo Fuso" a cavallo fra il 2008 e il 2009. Allora fece scalpore la conclusione salomonica del rapporto: "sono responsabili in parti eguali", sorvolando clamorosamente sull'utilizzo di scudi umani, sull'impiego di ambulanze a fini bellici da parte dei terroristi palestinesi, sullo spregio della Convenzione di Ginevra da parte di Hamas e sulla mistificazione dei numeri forniti ad uso e consumo dei media occidentali. "Se avessi conosciuto i reali dati, non avrei emesso quella sentenza", ammise ad aprile lo sconsolato Goldstone. Meglio tardi che mai? (o meglio mai che tardi?)
L'autore dell'ignobile rapporto, di cui il Senato americano ha chieso all'ONU il ritiro definitivo, ritorna alla ribalta con un editoriale apparso ieri sul New York Times, in cui riconosce - buon ultimo - l'inconsistenza dell'accusa mossa ancora oggi da alcuni nei confronti di Israele di praticare una politica di apartheid. Essendo di nazionalità sudafricana, e perdipiù non certo tenero con lo stato ebraico, Goldstone deve sapere il fatto suo: "è una calunnia ingiusta e fuori luogo, praticata per ritardare anziché favorire il processo di pace", ha chiosato. E' vero che ci sono ancora alcune differenze di condizione fra arabi israeliani ed ebrei israeliani - ogni stato del mondo ha i suoi "meridionali", ma Goldstone non può non rilevare come la condizione degli arabi sia decisamente allettante, rispetto alla condizione dei medesimi negli altri stati arabi: "il 20% della popolazione israeliana di razza araba può votare liberamente, è rappresentata in parlamento e riveste incarichi prestigiosi, come la presidenza della Corte Suprema. I pazienti arabi beneficiano negli ospedali dello stesso trattamento sanitario riservato agli ebrei". Ci sono parole anche per il West Bank: "non si rileva alcuna volontarietà nel mantenere un regime istituzionale di oppressione da parte di un gruppo razziale nei confronti dell'altro".
Goldstone riconosce la piena accettazione da parte di Israele di uno stato palestinese a Gaza e in quasi tutta la Cisgiordania, e si rammarica che l'iniziativa unilaterale di Abu Mazen alle Nazioni Unite possa far deragliare la soluzione di "due stati per due popoli".
lunedì 26 settembre 2011
Israele: uno stato di apartheid?
di Dennis Prager
Sempre più frequentemente negli ultimi giorni questa accusa è mossa. Curiosamente, quando il Sudafrica era uno stato in cui regnava l'apartheid, nessuna accusa simile veniva mossa nei confronti di Israele. Il motivo per cui l'accusa non veniva mossa allora, e non dovrebbe essere mossa oggi, è il medesimo: non c'è alcun fondo di verità in una simile affermazione.
Per quelli che conoscono Israele, o che vi sono stati almeno una volta, una simile accusa è assurda se non proprio oscena. In effetti si tratta di una calunnia. Ma molti non conoscono a fondo Israele, per cui è opportuno confutare questa accusa.
Anzitutto, che cos'è esattamente uno stato di apartheid? e in questa definizione può rientrare Israele, o se è per questo qualunque altro stato? Andiamo in Sudafrica, il primo stato in cui questo termine ha trovato luogo. Qui dal 1948 al 1994 c'era una politica ufficiale che dichiarava i neri "cittadini di seconda classe" in ogni aspetto della vita: i neri non potevano votare, non potevano rivestire cariche pubbliche (e furono costretti alle dimissioni), non potevano sposare i bianchi e persino non potevano nemmeno frequentare i bagni dei bianchi. Nessuna - nessuna - di queste restrizioni è lontanamente ipotizzabile ai tanti arabi che vivono in Israele.
Un milione e mezzo di arabi vivono in Israele: circa il 20% della popolazione complessiva. Ognuno di essi vanta gli stessi diritti di cui godono tutti gli israeliani; ed è sempre stato così. Possono votare, e si servono di questo diritto; possono essere eletti membri del parlamento israeliano (la "Knesset", NdT), e così fanno; possono essere proprietari di immobili, di aziende, e possono esercitare le libere professioni come tutti gli altri israeliani. Possono essere nominati giudici, e lo sono.
Ecco un esempio molto concreto: era un giudice arabo (arabo!) che condannò l'ex presidente di Israele al carcere per stupro, e nessuno ebbe da obiettare circa la possibilità che si trattasse di un errore di valutazione nei confronti di un presidente ebreo che stava per essere incarcerato. Altro esempio: Reda Mansour è stato il più giovane ambasciatore israeliano della storia; Walid Badir è una stella della squadra nazionale di calcio di Israele; Rana Raslan, araba, è stata nel 1999 Miss Israele; Ismail Khaldi è stato il vice console di Israele a San Francisco; Khaled Abu Toameh è un importante giornalista del Jerusalem Post; Raleb Majadele fino a poco tempo fa ha amministrato il governo israeliano. Sono tutti arabi; nessuno di essi è ebreo. E quanti al di fuori di Israele sanno che tutti i segnali stradali in Israele sono riportati in inglese, in ebraico e in arabo?
Non solo Israele non è uno stato di apartheid, ma gli arabi in Israele sono più liberi di qualsiasi stato arabo confinante. Nessuno cittadino in qualunque stato arabo gode dei diritti civili e delle libertà individuali di cui godono gli arabi in Israele. Questo perché Israele è una democrazia liberale basata sul pluralismo: l'unica in questa parte del mondo.
Si potrebbe obiettare: va bene, ma i palestinesi che vivono in Israele godono di tutti questi diritti; ma che dire dei palestinesi che vivono in quelli che sono noti come "Territori Occupati"? non sono forse trattati in modo differente? Certo che lo sono: perché non sono cittadini israeliani, essendo governati dall'Autorità Palestinese o da Hamas. L'unico controllo che Israele ha sulle vite di queste persone ha luogo quando essi manifestano il desiderio di entrare in Israele. A questo punto sono sottoposte a lunghe code e a stringenti controlli, necessari per prevenire l'ingresso di terroristi.
E che dire della barriera di sicurezza che divide Israele dal West Bank? non è esso un esempio di apartheid? la risposta è ferma e senza dubbi: si tratta della stessa barriera di sicurezza costruita fra Stati Uniti e Messico, che certo non è noto come esempio di apartheid. Israele ha costruito la barriera di sicurezza al solo scopo di impedire ai terroristi di entrare in Israele e ammazzare la sua gente. E sapete una cosa? ha funzionato! La barriera, rappresentata perlopiù da un recinto elettronico, è stato costruito nel 2002 dopo che le bombe suicide palestinesi hanno ammazzato i cittadini israeliani negli autobus, per le strade e nei ristoranti. Dopo che il "muro" è stato costruito, il terrorismo è crollato (dai 220 morti del 2002 si è scesi ai 142 morti del 2003, ai 55 morti del 2004, ai 23 morti del 2005, ai 15 morti del 2006 e ai 3 morti del 2007, NdT) fin quasi a zero.
Per cui in definitiva perché Israele è raffigurato come uno stato di apartheid? perché il confronto con lo stato più liberale mette in difficoltà molti stati del medio oriente, che cercano di persuadere la gente disinformata che il sistema vigente in Israele non ha diritto ad esistere, così come l'apartheid del Sudafrica non avevo alcun diritto per perpetrarsi.
E se non credete a me, chiedetelo alle persone che conoscono la realtà meglio di chiunque altro, quale menzogna sia quella che raffigura Israele come stato di apartheid: chiedetelo a quell'israeliano arabo su cinque. Ed è questo il motivo per cui essi preferiscono vivere nello stato degli ebrei (l'82% degli israeliani arabi) anziché in qualunque altro stato arabo.
Sempre più frequentemente negli ultimi giorni questa accusa è mossa. Curiosamente, quando il Sudafrica era uno stato in cui regnava l'apartheid, nessuna accusa simile veniva mossa nei confronti di Israele. Il motivo per cui l'accusa non veniva mossa allora, e non dovrebbe essere mossa oggi, è il medesimo: non c'è alcun fondo di verità in una simile affermazione.
Per quelli che conoscono Israele, o che vi sono stati almeno una volta, una simile accusa è assurda se non proprio oscena. In effetti si tratta di una calunnia. Ma molti non conoscono a fondo Israele, per cui è opportuno confutare questa accusa.
Anzitutto, che cos'è esattamente uno stato di apartheid? e in questa definizione può rientrare Israele, o se è per questo qualunque altro stato? Andiamo in Sudafrica, il primo stato in cui questo termine ha trovato luogo. Qui dal 1948 al 1994 c'era una politica ufficiale che dichiarava i neri "cittadini di seconda classe" in ogni aspetto della vita: i neri non potevano votare, non potevano rivestire cariche pubbliche (e furono costretti alle dimissioni), non potevano sposare i bianchi e persino non potevano nemmeno frequentare i bagni dei bianchi. Nessuna - nessuna - di queste restrizioni è lontanamente ipotizzabile ai tanti arabi che vivono in Israele.
Un milione e mezzo di arabi vivono in Israele: circa il 20% della popolazione complessiva. Ognuno di essi vanta gli stessi diritti di cui godono tutti gli israeliani; ed è sempre stato così. Possono votare, e si servono di questo diritto; possono essere eletti membri del parlamento israeliano (la "Knesset", NdT), e così fanno; possono essere proprietari di immobili, di aziende, e possono esercitare le libere professioni come tutti gli altri israeliani. Possono essere nominati giudici, e lo sono.
Ecco un esempio molto concreto: era un giudice arabo (arabo!) che condannò l'ex presidente di Israele al carcere per stupro, e nessuno ebbe da obiettare circa la possibilità che si trattasse di un errore di valutazione nei confronti di un presidente ebreo che stava per essere incarcerato. Altro esempio: Reda Mansour è stato il più giovane ambasciatore israeliano della storia; Walid Badir è una stella della squadra nazionale di calcio di Israele; Rana Raslan, araba, è stata nel 1999 Miss Israele; Ismail Khaldi è stato il vice console di Israele a San Francisco; Khaled Abu Toameh è un importante giornalista del Jerusalem Post; Raleb Majadele fino a poco tempo fa ha amministrato il governo israeliano. Sono tutti arabi; nessuno di essi è ebreo. E quanti al di fuori di Israele sanno che tutti i segnali stradali in Israele sono riportati in inglese, in ebraico e in arabo?
Non solo Israele non è uno stato di apartheid, ma gli arabi in Israele sono più liberi di qualsiasi stato arabo confinante. Nessuno cittadino in qualunque stato arabo gode dei diritti civili e delle libertà individuali di cui godono gli arabi in Israele. Questo perché Israele è una democrazia liberale basata sul pluralismo: l'unica in questa parte del mondo.
Si potrebbe obiettare: va bene, ma i palestinesi che vivono in Israele godono di tutti questi diritti; ma che dire dei palestinesi che vivono in quelli che sono noti come "Territori Occupati"? non sono forse trattati in modo differente? Certo che lo sono: perché non sono cittadini israeliani, essendo governati dall'Autorità Palestinese o da Hamas. L'unico controllo che Israele ha sulle vite di queste persone ha luogo quando essi manifestano il desiderio di entrare in Israele. A questo punto sono sottoposte a lunghe code e a stringenti controlli, necessari per prevenire l'ingresso di terroristi.
E che dire della barriera di sicurezza che divide Israele dal West Bank? non è esso un esempio di apartheid? la risposta è ferma e senza dubbi: si tratta della stessa barriera di sicurezza costruita fra Stati Uniti e Messico, che certo non è noto come esempio di apartheid. Israele ha costruito la barriera di sicurezza al solo scopo di impedire ai terroristi di entrare in Israele e ammazzare la sua gente. E sapete una cosa? ha funzionato! La barriera, rappresentata perlopiù da un recinto elettronico, è stato costruito nel 2002 dopo che le bombe suicide palestinesi hanno ammazzato i cittadini israeliani negli autobus, per le strade e nei ristoranti. Dopo che il "muro" è stato costruito, il terrorismo è crollato (dai 220 morti del 2002 si è scesi ai 142 morti del 2003, ai 55 morti del 2004, ai 23 morti del 2005, ai 15 morti del 2006 e ai 3 morti del 2007, NdT) fin quasi a zero.
Per cui in definitiva perché Israele è raffigurato come uno stato di apartheid? perché il confronto con lo stato più liberale mette in difficoltà molti stati del medio oriente, che cercano di persuadere la gente disinformata che il sistema vigente in Israele non ha diritto ad esistere, così come l'apartheid del Sudafrica non avevo alcun diritto per perpetrarsi.
E se non credete a me, chiedetelo alle persone che conoscono la realtà meglio di chiunque altro, quale menzogna sia quella che raffigura Israele come stato di apartheid: chiedetelo a quell'israeliano arabo su cinque. Ed è questo il motivo per cui essi preferiscono vivere nello stato degli ebrei (l'82% degli israeliani arabi) anziché in qualunque altro stato arabo.
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