di Khaled Abu Toameh*
Negli ultimi vent'anni gli Stati Uniti hanno impiegato 4.5 miliardi di dollari nel tentativo di promuovere la democrazia fra i palestinesi di West Bank e Gaza, incoraggiando il processo di pace con gli israeliani. È quanto rivelato dal primo ministro palestinese Rami Hamdallah durante un incontro a Ramallah con il deputato Kevin McCarthy, leader della maggioranza al Congresso americano. Hamdallah ha affermato che il denaro è stato investito in diversi progetti. I 4 miliardi e mezzo di cui Hamdallah ha parlato non includono i miliardi di dollari versati all'Autorità Palestinese sin dalla sua costituzione nel 1994: analisti economici stimano che l'AP ha ricevuto un totale di 25 miliardi di dollari da Stati Uniti e altri paesi negli ultimi vent'anni.
Non bisogna essere esperti di questione palestinese per riconoscere come tutti questi miliardi non abbiano ne' generato una democrazia palestinese, ne' migliorato le relazioni con gli israeliani. Tanto per incominciare, l'AP - nata in seguito agli Accordi di Oslo sottoscritti nel 1993 fra Israele e OLP - si è rivelato un regime tutt'altro che democratico. Al contrario: sin dall'inizio si è rivelata una specie di dittatura amministrata prima da Yasser Arafat e poi dai suoi sodali. Un regime corrotto, finanziato ed equipaggiato direttamente da Stati Uniti, Europa e altri stati. Chi ha sostenuto il regime autocratico di Arafat non si è mai curato di verificare la crescita della democrazia e la trasparenza dell'amministrazione palestinese. Sono stati versati svariati miliardi di dollari, senza neanche chiedere conto del loro impiego.
Il risultato per i palestinesi è stato quello di disporre di un regime che non solo ha progressivamente tagliato loro fuori dagli aiuti internazionali, ma che ha anche stroncato l'opposizione politica e la libertà di parola. L'AP alla fine si è rivelato un "one man show", finanziato dalle tasche dei contribuenti europei e americani.
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mercoledì 19 agosto 2015
martedì 16 aprile 2013
Doppiogiochismo islamico
Arafat ci aveva abituati bene: dopo l'ennesimo, inutile, sterile accordo di pace fra palestinesi e israeliani, si piazzava davanti alle telecamere festante e gioioso, con la pistola malcelata dalla mimetica, con i ramoscello d'ulivo in bocca, dalla quale uscivano in inglese tranquillizanti e miti parole, per la gioia orgasmica dei reporter, che osannavano i buoni intenti del leader dell'OLP. A quanto pare, gli hanno dato anche un premio Nobel per la pace...
...poi andava dalle sue parti, a Ramallah, e in arabo diceva il peggio possibile contro gli americani, contro gli israeliani, e contro tutti. Purché il suo potere non subisse ridimensionamenti. Alla fine la pace era una parola vuota che veniva declinata in tutti i modi (solo) dal mondo occidentale; quello che contava di meno, purché mettesse mano al portafoglio. Nelle cancellerie arabe, si sapeva benissimo che Arafat non avrebbe mai sottoscritto alcun trattato di pace: una volta ebbe a dire: «Preferisco essere ucciso dal proiettile di un israeliano che mi considera un nemico, anziché dal proiettile di un palestinese che mi condanna come un traditore». Questa doppiezza ha caratterizzato tutta la vita del terrorista palestinese, e caratterizza tuttora buona parte della politica islamica.
...poi andava dalle sue parti, a Ramallah, e in arabo diceva il peggio possibile contro gli americani, contro gli israeliani, e contro tutti. Purché il suo potere non subisse ridimensionamenti. Alla fine la pace era una parola vuota che veniva declinata in tutti i modi (solo) dal mondo occidentale; quello che contava di meno, purché mettesse mano al portafoglio. Nelle cancellerie arabe, si sapeva benissimo che Arafat non avrebbe mai sottoscritto alcun trattato di pace: una volta ebbe a dire: «Preferisco essere ucciso dal proiettile di un israeliano che mi considera un nemico, anziché dal proiettile di un palestinese che mi condanna come un traditore». Questa doppiezza ha caratterizzato tutta la vita del terrorista palestinese, e caratterizza tuttora buona parte della politica islamica.
lunedì 18 febbraio 2013
Dove sono finiti tutti i miliardi versati ai palestinesi?

Il primo ministro dell'Autorità Palestinese (AP) Salam Fayyad ha dichiarato che il regime è a corto di liquidità. Un lettore nel frattempo mi chiede: «mi puoi spiegare perché a 20 anni dagli Accordi di Oslo e con miliardi di dollari di aiuti internazionali, l'AP non dispone di moderni ospedali? perché i paesi donatori versano contributi a pioggia senza manco aspettarsi qualche minimo risultato che salvi la faccia?»
E' una buona domanda. La risposta breve è: conti in Svizzera. In altre parole, una consistente quantità di denaro è stata distratta. Non c'è niente di peggio di governanti - specie un popolo povero - che da un lato lamentano le condizioni misere del proprio popolo, e dall'altro ne approfittano. Ovviamente, un osservatore che vede i palestinesi in condizioni di povertà, tende a biasimare per questo Israele, in tal modo esacerbando la causa effettiva di questa situazione: la politica intransigente dei leader palestinesi.
La ricchezza personale del "presidente" Mahmoud Abbas è stimata in 100 milioni di dollari. Per avere un'idea delle cifre in ballo, si sommi a questa somma i milioni di dollari di esponenti di primo e secondo piano dell'AP e del partito Al Fatah, assieme alle centinaia di milioni di dollari che Arafat ha trafugato all'estero. Una cifra di mezzo miliardo di dollari destinata in vent'anni ad un'entità che governa poco più di due milioni di anime.
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giovedì 27 dicembre 2012
Seconda e terza Intifada
Ogni tanto qualche capo terrorista palestinese cerca di riconquistare le simpatie del suo popolo, incitandolo ad una nuova ondata di violenze e terrorismo nei confronti dei vicini israeliani. Non fa più notizia, ormai: lo scollamento fra leadership palestinese e "base" è sempre più evidente, e dipende non solo dalla corruzione e malaffare dilaganti, ma anche dalla crescente convinzione che il benessere non si possa conseguire se non con il dialogo e la trattativa. L'iniziativa disperata di Abu Mazen alle Nazioni Unite alla fine di novembre non ha risollevato più di tanto le sue fortune a Ramallah e dintorni.
domenica 9 dicembre 2012
I palestinesi non imparano mai
di Emanuele Ottolenghi*
Il voto alle Nazioni Unite che ha avanzato la condizione dell'OLP a stato osservatore non membro non ha fatto nulla per far progredire la condizione della questione palestinese. Al contrario, ripete un vecchio copione della storia: anziché cercare un compromesso con Israele, i leader palestinesi ripongono il loro destino nelle mani di altri, ingenuamente credendo che essi consegneranno loro ciò che non sono in grado di conseguire.
Quando gli stati mondiali si riunirono all'ONU nel 1947 per votare il piano di partizione del mandato britannico in Medio Oriente in due stati - uno arabo, uno ebraico - i leader palestinesi si fidarono della Lega Araba, opponendosi all'accordo, convinti dagli eserciti arabi che avrebbero ottenuto con la forza tutto il territorio. Ma non andò così.
Il voto alle Nazioni Unite che ha avanzato la condizione dell'OLP a stato osservatore non membro non ha fatto nulla per far progredire la condizione della questione palestinese. Al contrario, ripete un vecchio copione della storia: anziché cercare un compromesso con Israele, i leader palestinesi ripongono il loro destino nelle mani di altri, ingenuamente credendo che essi consegneranno loro ciò che non sono in grado di conseguire.
Quando gli stati mondiali si riunirono all'ONU nel 1947 per votare il piano di partizione del mandato britannico in Medio Oriente in due stati - uno arabo, uno ebraico - i leader palestinesi si fidarono della Lega Araba, opponendosi all'accordo, convinti dagli eserciti arabi che avrebbero ottenuto con la forza tutto il territorio. Ma non andò così.
giovedì 29 novembre 2012
I palestinesi rispondano dei crimini contro l'umanità
«Israele denuncia l'Autorità Palestinese per diversi crimini alla Corte Penale Internazionale»: così dovrebbero titolare a breve molti giornali. Nell'ultimo paio di mesi è apparso evidente che l'AP sta puntando a conseguire lo status di "osservatore non membro" delle Nazioni Unite. Israele sta compiendo ogni sforzo per convincere gli attuali membri dell'ONU a pronunciarsi contro questa iniziativa. Ed è ora sempre più chiaro che la prima azione che i palestinesi intraprenderanno è quella di citare in giudizio Israele presso la Corte Penale Internazionale (International Criminal Court) per il presunto assassinio di Yasser Arafat, anche se non vi è alcuna prova in tal senso. In effetti, il medico francese Roland Masse, specializzato in radioattività e docente all'ospedale militare di Percy dove Arafat è morto, ha affermato in un'intervista che non vi è alcuna possibilità che Arafat sia stato avvelenato.
sabato 22 settembre 2012
Perché i palestinesi evitano il processo di pace?
di Robin Shepherd*
Forse l'osservazione più famosa attribuita ad un funzionario israeliano a proposito della indisponibilità palestinese a lavorare ad una pace duratura, risale al 1973, quando l'allora ministro degli Esteri di Gerusalemme affermò: «i palestinesi non perdono mai l'opportunità di perdere una opportunità». Allora come oggi, l'affermazione rasenta l'ovvietà. Avendo respinto il piano di partizione (del mandato britannico palestinese, NdT) delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che invece fu accettato dagli ebrei, e che avrebbe dato vita a due stati - uno arabo e uno israeliano - i palestinesi hanno confidato nel cacciare gli israeliani attraverso la guerriglia, il terrorismo vero e proprio e le guerre di volta in volta scatenate dagli stati arabi confinanti.
Il negoziatore capo dell'Autorità Palestinese Saeb Erekat l'altro giorno ha fornito dettagli circa una proposta di riconoscimento di uno stato palestinese, da presentare all'assemblea generale dell'ONU alla fine di questo mese, tornando alle linee del 1967 (precedenti la Guerra dei Sei Giorni del 5-10 giugno 1967, NdT). Secondo il Jerusalem Post, egli sostiene che «nessuno parla di cancellare il processo di pace».
Che delusione. Gli israeliani sono giustamente timorosi di tutto ciò che provenga dall'assemblea generale dell'ONU, o da altre istituzioni ad essa affiliate (come l'UNESCO, per esempio, NdT). La convinzione è che esse accettano allegramente le condizioni per negoziati di pace imposte da stati massicciamente rappresentati e che sognano la distruzione di Israele.
In secondo luogo, le linee del 1967 sono indifendibili. E non si tratta nemmeno di confini: si tratta appunto di linee, armistiziali, su cui i soldati degli eserciti opposti si sono ritrovati ad un certo punto della Guerra di Indipendenza del 1948 (scatenata dagli stati arabi confinanti), quando fu accolto l'invito di cessare almeno provvisoriamente le ostilità.
Anche nell'ambito dello scambio di terre che accompagnerebbe nel mondo reale una soluzione in due stati, il concetto che le linee del 1967, anziché confini realmente difendibili, possano rappresentare la piattaforma di un negoziato di pace, è semplicemente ridicolo.
Ma torniamo al punto di partenza. Perché i palestinesi sono così intenti a coinvolgere qualcun'altro nel fissare i termini di un processo di pace in loro vece? dopotutto, Israele sta ripetutamente lanciando inviti al tavolo delle trattative, senza alcuna pre-condizione. Perché questo tavolo è accuratamente evitato dai palestinesi?
A prescindere da quanto sostiene Erekat, i palestinesi comprendono benissimo che gli sforzi di fissare i termini di un negoziato mediante le Nazioni Unite rende le discussioni piuttosto improbabili, se non impossibile. Per cui: cos'hanno in mente?
Tristemente, tutto si riconduce alla vecchia tecnica di respingere sempre, che i palestinesi hanno adottato sin da quando rifiutarono il piano di partizione dell'ONU del 1947. Quando c'è un'opportunità da cogliere, essi sono risoluti nel respingerla. Uno sconcertato Bill Clinton apprese questo comportamento nel 2000, quando al termine di estenuanti trattative di pace che avrebbero portato a due stati i quali avrebbero finalmente vissuto fianco a fianco; Yasser Arafat d'un tratto fece saltare il tavolo e tornò trionfante fra la sua gente. Ancora oggi ci si chiede perché sia stata respinta quella storica opportunità.
* Fonte: The Commentator
Forse l'osservazione più famosa attribuita ad un funzionario israeliano a proposito della indisponibilità palestinese a lavorare ad una pace duratura, risale al 1973, quando l'allora ministro degli Esteri di Gerusalemme affermò: «i palestinesi non perdono mai l'opportunità di perdere una opportunità». Allora come oggi, l'affermazione rasenta l'ovvietà. Avendo respinto il piano di partizione (del mandato britannico palestinese, NdT) delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che invece fu accettato dagli ebrei, e che avrebbe dato vita a due stati - uno arabo e uno israeliano - i palestinesi hanno confidato nel cacciare gli israeliani attraverso la guerriglia, il terrorismo vero e proprio e le guerre di volta in volta scatenate dagli stati arabi confinanti.
Il negoziatore capo dell'Autorità Palestinese Saeb Erekat l'altro giorno ha fornito dettagli circa una proposta di riconoscimento di uno stato palestinese, da presentare all'assemblea generale dell'ONU alla fine di questo mese, tornando alle linee del 1967 (precedenti la Guerra dei Sei Giorni del 5-10 giugno 1967, NdT). Secondo il Jerusalem Post, egli sostiene che «nessuno parla di cancellare il processo di pace».
Che delusione. Gli israeliani sono giustamente timorosi di tutto ciò che provenga dall'assemblea generale dell'ONU, o da altre istituzioni ad essa affiliate (come l'UNESCO, per esempio, NdT). La convinzione è che esse accettano allegramente le condizioni per negoziati di pace imposte da stati massicciamente rappresentati e che sognano la distruzione di Israele.
In secondo luogo, le linee del 1967 sono indifendibili. E non si tratta nemmeno di confini: si tratta appunto di linee, armistiziali, su cui i soldati degli eserciti opposti si sono ritrovati ad un certo punto della Guerra di Indipendenza del 1948 (scatenata dagli stati arabi confinanti), quando fu accolto l'invito di cessare almeno provvisoriamente le ostilità.
Anche nell'ambito dello scambio di terre che accompagnerebbe nel mondo reale una soluzione in due stati, il concetto che le linee del 1967, anziché confini realmente difendibili, possano rappresentare la piattaforma di un negoziato di pace, è semplicemente ridicolo.
Ma torniamo al punto di partenza. Perché i palestinesi sono così intenti a coinvolgere qualcun'altro nel fissare i termini di un processo di pace in loro vece? dopotutto, Israele sta ripetutamente lanciando inviti al tavolo delle trattative, senza alcuna pre-condizione. Perché questo tavolo è accuratamente evitato dai palestinesi?
A prescindere da quanto sostiene Erekat, i palestinesi comprendono benissimo che gli sforzi di fissare i termini di un negoziato mediante le Nazioni Unite rende le discussioni piuttosto improbabili, se non impossibile. Per cui: cos'hanno in mente?
Tristemente, tutto si riconduce alla vecchia tecnica di respingere sempre, che i palestinesi hanno adottato sin da quando rifiutarono il piano di partizione dell'ONU del 1947. Quando c'è un'opportunità da cogliere, essi sono risoluti nel respingerla. Uno sconcertato Bill Clinton apprese questo comportamento nel 2000, quando al termine di estenuanti trattative di pace che avrebbero portato a due stati i quali avrebbero finalmente vissuto fianco a fianco; Yasser Arafat d'un tratto fece saltare il tavolo e tornò trionfante fra la sua gente. Ancora oggi ci si chiede perché sia stata respinta quella storica opportunità.
* Fonte: The Commentator
martedì 1 maggio 2012
E fu così che fu inventato il "popolo palestinese"...
Oggi l’Italiano Medio si commuove pronunciando la parola “Palestina”, perché crede sia il nome della Terra di Gesù. Ne è convinto: un po’ perché a scuola ha studiato svogliatamente la storia, un po’ perché i libri di testo spesso fanno schifo. Così accade che l’Italiano Medio ignori che il nome “Palestina” fu imposto a quella terra solo nell’anno 70, come dispregiativo (Palestina=terra dei Filistei, popolo già a quel tempo estinto da secoli), insieme al nome di ”Aelia Capitolina” per Gerusalemme. Nomi imposti con odio verso gli ebrei che proprio non volevano arrendersi alla potenza di Roma.
E così fu inventata la “Palestina”, quell’area formata dalle province che gli stessi Romani avevano sempre chiamato “Iudea”, “Samaria”, “Galilaea”.
“Palestina”, quella che in seguito, per molti secoli, è stata ”Sancak-i Kudüs-i Şerif”, sangiaccato di Gerusalemme, la regione a maggioranza ebraica della “Suriye eyaleti“, la provincia di Siria dell’Impero Ottomano. “Palestina”. Nome che ritorna in uso solo dal 1920 al 1948 con il ”Mandato Britannico” (modo ipocrita e molto inglese per dire “colonia”).
“Palestina”, terra che gli Ebrei hanno sempre chiamato “Israele”, così come i Greci hanno sempre chiamato “Hellas” la loro terra, quella regione del Mediterraneo che per noi è “Grecia” e per i Turchi era, ed è tutt’oggi, “Yunanistan”. Il 14 maggio del 1948, con la nascita di “Medinat Israel” (lo Stato d’Israele) il nome “Palestina” muore. Muore, ma poi risorge il 17 luglio 1968 con la “Risoluzione del Consiglio Nazionale Palestinese”, che recita:
«La Palestina è la patria del popolo arabo palestinese; è parte indivisibile della nazione araba, di cui il popolo palestinese è parte integrante. La Palestina, entro i limiti che aveva ai tempi del Mandato Britannico (ossia gli attuali Israele + Giordania + Territori dell’Autonomia Palestinese + Gaza, n.d.r), è un’indivisibile unità territoriale.»
Insomma, la “Palestina” rinasce, allo scopo di eliminare Israele, lo stato degli Ebrei. Ma agli occhi dell’Italiano Medio la sua rinascita appare come una lotta di poveri contro ricchi, invertendo, per chissà quale mistero, il ruolo dei due attori. Non sono ricchi i latifondisti arabi, NO. Sono ricchi gli ebrei, anche quelli più sventurati!
È ricca la gente che arriva su carrette del mare per ricongiungersi ai propri connazionali, sfuggendo a un’Europa che li ha perseguitati per secoli, tenuti ai margini, messi al rogo, infornati ad Auschwitz.
È ricca la gente che, dopo millenni trascorsi nei paesi del Nord Africa, è costretta a lasciare da un giorno all’altro tutto, per sfuggire all’odio fomentato dalla propaganda.
È ricca la gente vestita alla men peggio che, senza casa e senza nulla, fonda comunità basate su principi socialisti e prende la zappa in mano per dissodare terra rimasta incolta per secoli in mano a latifondisti egiziani o siriani, riscattata a peso d’oro, pagandola a quegli stessi padroni che con quei soldi pensavano alle armi da comprare per riprendersi tutto.
È ricca quella gente. Ed è davvero molto ricca: ricca di fame, ricca di miseria, ma soprattutto ricca di speranza, ricca di inventiva, ricca di spiritualità, ricca di senso pratico, ricca della propria cultura pluri-millenaria e di tutte le culture con cui si è confrontata...
Mentre è povera la “Palestina”. E lo è soprattutto nell’immaginario dell’Italiano Medio: è come una sorta di Sierra Maestra mediorientale, in cui il prode Arafat, presentato come un Guevara, combatte contro l’arroganza degli israeliani, ricchi e prepotenti, paragonabili agli yankee e perfino ai boeri razzisti del Sud Africa!
La “Palestina” di Arafat l’egiziano, il pupillo di Muhammad Amīn al-Husaynī, alleato di Hitler e fondatore della Legione Araba, quell’esercito di criminali che marciavano al passo dell’oca sulla terra degli Ebrei e che intendeva attuare la Soluzione Finale anche lì!
“Palestina”. Una lotta di liberazione per l’Italiano Medio. In realtà, uno sporco gioco degli Inglesi prima, dei Russi e degli Americani poi, come ci raccontano David Horowitz e Guy Millière in Comment le peuple palestinien fut inventé, libro non ancora tradotto in Italiano e di cui vi propongo alcuni passi.
Speriamo di vederlo nelle nostre librerie al più presto.
Fulvio Del Deo
(dal libro: Comment le peuple palestinien fut inventé, di David Horowitz, Guy Millière)
(...) Fu, nota Ion Mihai Pacepa, ex-capo della Securitate rumena, nel suo libro “The Kremlin Legacy“, in un giorno del 1964, «fummo convocati a una riunione congiunta del KGB a Mosca». Il soggetto della riunione era di estrema importanza: «si trattava di ridefinire la lotta contro Israele, considerato un alleato dell’Occidente nel quadro della guerra fredda che conducevamo». La guerra araba per la distruzione di Israele non era suscettibile di attirare molti sostegni nei «movimenti per la pace», satelliti de l’Unione Sovietica. Dovevamo ridefinirla. Era l’epoca delle lotte di liberazione nazionali. Fu deciso che sarebbe stata una lotta di liberazione nazionale: quella del “POPOLO PALESTINESE”. L’organizzazione si sarebbe chiamata OLP: Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Alla riunione parteciparono membri dei servizi siriani e egiziani. I Siriani proposero il loro uomo, come futuro leader del movimento: Ahmed Shukairy¹, e fu accettato. Gli Egiziani avevano il loro candidato: Yasser Arafat. Quando fu chiaro che Shukairy non sarebbe stato all’altezza della situazione, fu deciso di rimpiazzarlo con Arafat, e, spiega Pacepa, costui fu “fabbricato”: abbigliamento da Che Guevara medio-orientale, barba di tre giorni da avventuriero. «Dovevamo sedurre i nostri militanti e i nostri contatti in Europa».
Quaranta e passa anni dopo, l’opera di seduzione sembra aver avuto un netto successo. Non solo la «lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese» appare giusta e legittima, ma nessuno mette più in discussione l’esistenza del “popolo palestinese”. nessuno osa dire che questo popolo fu inventato a fini di propaganda: nessuno sembra voler ricordarsene. Nessuno sembra volersi ricordare che la creazione del “popolo palestinese” fu un utile strumento della lotta dell’Unione Sovietica contro l’Occidente, durante la Guerra fredda.
E infatti: la lotta di liberazione nazionale inventata dal KGB ha fatto la sua strada: ci sono stati gli accordi di Oslo e la creazione dell’autorità palestinese in Giudea Samaria, c’è stata l’emergenza di Hamas poi, dopo la caduta dell’URSS, l’inserimento di una dimensione islamista nel conflitto. C’è stato, soprattutto, con Oslo, il riconoscimento da parte del governo israeliano dell’invenzione del KGB, il “popolo palestinese”, invenzione che è sfociata nell’idea dei “territori palestinesi” “occupati” da Israele.
Noi siamo oggi in uno dei momenti nei quali la parte islamista che tiene Gaza e la parte derivata dall’OLP che tiene Ramallah, cercano di ottenere un riconoscimento internazionale all’ONU, avendolo già ottenuto all’Unesco, con il sostegno di paesi come la Francia.
Fonte: Il blog di Barbara.
mercoledì 14 settembre 2011
La politica dei palestinesi: dire sempre di NO
Il tribunale militare di Samaria ha inflitto ai responsabili della strage di Itamar - l'insediamento israeliano in cui sono stati brutalmente massacrati i membri della famiglia Fogel, fra cui una bambina di appena tre mesi - cinque ergastoli. Hakim Awad, il capo della banda, ha dichiarato che non è pentito di quanto fatto, che lo rifarebbe, che accetterebbe ogni punizione, pur di reagire alla "occupazione" israeliana.
La deformazione mentale e il vero e proprio lavaggio del cervello subito da questi ragazzi parla da se'. Poiché però non pochi confondono i termini, è bene chiarire che la violenza nei confronti degli israeliani nasce ben prima della cosiddetta "occupazione" del West Bank (Gaza è in mano ai palestinesi dal 2005; e si vede... Poveri loro, nelle mani di Hamas); che poi non di vera e propria occupazione si tratterebbe, dal momento che Giudea e Samaria sono storicamente territori abitati da popolazioni ebraiche, e che prima del 1967 questi territori sono stati occupati dalla Giordania, senza che mai nessuno abbia avuto qualcosa da ridire (in effetti secondo logica il disimpegno israeliano da questi territori "occupati" implicherebbe che i medesimi dovrebbero tornare alla Giordania, che li occupava fino a 44 anni fa).
In questo filmato si spiega chiaramente la politica della leadership palestinese: dire no, sempre e comunque, a qualsiasi iniziativa finalizzata alla pace. Mai la pace con gli israeliani, anche quando essi assecondano le richieste, consegnando tutto ciò che i palestinesi chiedono. Dire per una volta, e definitivamente "sì", comporterebbe il venir meno dell'obiettivo per cui l'OLP è stata creata, e lo smantellamento di una burocrazia corrotta e assetata di denaro. Meglio dire no, anche se questo comporta la rinuncia alla pace...
Molti sostengono che la presenza di Israele nel West Bank, che alcuni definiscono "occupazione", sia la causa dell'ostilità palestinese verso gli israeliani, e il motivo per cui non si raggiunga la pace. Ma è proprio vero?
Se la causa del conflitto risiede nella presenza di Israele nel West Bank, ciò porterebbe a concludere che alcun conflitto ci sia stato prima del 1967, quando Israele non occupava il West Bank. Vediamo come sono andati i fatti.
L'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) è stata fondata nel 1964, quando Israle non aveva alcuna presenza nel West Bank e a Gaza. Che cosa chiedevano i palestinesi? la risposta risiede nell'emblema dell'OLP: l'OLP è stata istituita per rimuovere con la forza l'intero stato di Israele dalla mappa del Medio Oriente, come è chiaramente indicato nel loro statuto. Nulla di nuovo: l'OLP è la continuazione di una lunga storia araba basata sul "NO": no all'autodeterminazione del popolo ebraico; no al riconoscimento delle radici ancestrali degli ebrei. Diamo un'occhiata alla storia...
Nel 1937 la Commissione Peel suggerì una divisione della terra in uno stato ebraico e in uno arabo. Lo stato arabo avrevve incluso il 96% dei territori che la Lega delle Nazioni aveva originariamente assegnato ad una madrepatria ebraica. Questo includeva ben più dell'attuale West Bank; tuttavia, anziché accettare come fecero gli ebrei un sentiero verso la pace, il leader palestinese Haj Amin al-Husseini disse NO, e si legò ad un partner (Hitler, NdT) i cui obiettivi erano coincidenti.
Nel 1947 le Nazioni Unite raccomandarono un piano di partizione che ancora una volta offrì agli arabi ben più che l'attuale West Bank. Gli ebrei risposero positivamente; i leader arabi ancora una volta risposero di NO, e scaterano una guerra di sterminio, che persero. Israele vinse la guerra e fondò lo stato, ma non ha mai conosciuto un giorno di pace, malgrado il fatto che i suoi vicini arabi hanno occupato l'intero West Bank. Gli arabi hanno continuato ad affermare: NO. Hanno attaccato Israele senza sosta, usando il West Bank come trampolino di lancio fino a quando Israele l'occupò nel 1967 con la guerra di autodifesa. Dopo la guerra dei sei giorni la Lega Araba respinse ogni tentativo di raggiungere la pace, preferendo la violenza al dialogo, e al summit di Khartum sentimmo echeggiare ancora una volta no! no! no!
Andiamo avanti al 1993. Israele e palestinesi firmano gli Accordi di Pace di Oslo. Forse i palestinesi una volta buona hanno risposto di sì? così sembrava. Israele disse "sì" e fornì' il controllo dei Territori ad un governo palestinese che avrebbe aiutato a costituire. Ma malgrado la firma di un solenne accordo, le fazioni palestinesi erano ostili. I cinque anni successivi videro un significativo aumento degli attentati terroristici, durante i quali centinaia di israeliani furono uccisi. Nel 1996 il leader palestinese Yasser Arafat dichiarò "lavoriamo all'eliminazione dello stato di Israele e alla creazione di uno stato interamente palestinese".
Ma Israele non rinunciò a dire di sì. Nel 2000 il PM Barak offrì ai palestinesi il 93% del West Bank: ancora una volta la risposta fu "NO", accompagnata da un aumento del terrorismo. Nel 2005 Israele si ritirò dalla Striscia di Gaza, sradicando 85 mila cittadini israeliani nella speranza di raggiungere la pace. Ma i palestinesi ancora una volta risposero di no; stavolta incrementando gli attacchi da Gaza contro la popolazione civile israeliana del 500% in un anno.
Nel 2008 ci fu l'ennesimo tentativo israeliano di rispondere di "sì". Il primo ministro Olmert accettò praticamente tutte le rivendicazioni palestinesi, incluso quasi il 100% di tutto il West Bank, con limitati scambi territoriali. I palestinesi ancora una volta risposero di no.
Quali sono le conclusioni?
1) il conflitto israelo-palestinese non è causato dalla presenza di Israele nel West Bank. La vera causa del conflitto, fino ad oggi, risiede nella tradizione storica araba di rispondere "no": no alla pace, no all'esistenza di Israele. Il "no" è coerente con con la politica, istruzione e i media palestinesi. I politici e i religiosi incessantemente caldeggiano la distruzione di Israele;
2) per decenni Israele ha risposto affermativamente alla pace, e ciò è dimostrato dalla firma degli accordi di pace con la Giordania e con l'Egitto.
In che direzione stiamo andando? come possiamo perseguire la pace? con buona volontà e con il reciproco riconoscimento del diritto all'autodeterminazione e con un reale compromesso fra entrambe le parti. Da parte sua Israele continuerà a dire "sì" ad una pace effettiva e duratura. Ma affinché ciò sia possibile i palestinesi devono scegliere fra la forza e il dialogo, e fra il no e il sì. E' il momento giusto per farlo.
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mercoledì 7 settembre 2011
Per ricordare...

39 anni fa 11 atleti israeliani furono trucidati durante le Olimpiadi di Monaco. Fra i responsabili riconosciuti di quella carneficina, il "premio Nobel" Yasser Arafat e il leader dell'Autorità Palestinese Abu Mazen, che fra qualche giorno si presenterà all'ONU per chiedere il riconoscimento dello stato di Palestina.
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