giovedì 31 maggio 2012

Spiragli di pace fra Israele e palestinesi

L'economia israeliana è fra le più vivaci e dinamiche al mondo. Nonostante la costante minaccia proveniente dagli stati confinanti, e pur priva di materie prime, l'eccellenza nella tecnologia e nel settore medico hanno consentito negli ultimi anni una vistosa espansione del prodotto interno lordo e una costante crescita del reddito delle famiglie; 1/5 delle quali sono arabe.
Altri arabi stanno ora beneficiando di questo boom economico (dall'inizio della Grande Recessione Israele è l'unico stato al mondo che ha visto migliorare il proprio merito di credito - rating - ad opera di Standard&Poor's). Le relazioni politiche fra Israele e West Bank sono ancora complicate dalla scarsa volontà da parte palestinese di sedersi al famoso tavolo delle trattative per il mutuo e pacifico riconoscimento. Ma ciò non sta impedendo il fiorire di relazioni commerciali. Certo, i volumi dell'interscambio sono ancora modesti: 4.3 miliardi di dollari nel 2011, in buona misura esportazioni israeliane. Ma la crescita economica dello stato ebraico ha consentito all'economia dell'Autorità Palestinese di aumentare le proprie "esportazioni" del 18%.
E nel frattempo si tengono iniziative bilaterali di scambi culturali, prima ancora che commerciali. Il Jerusalem Post rende nota una recente conferenza tenutasi nel Negev, che ha visto la presenza di uomini di affari sia israeliani che palestinesi. L'incontro è culminato con una competizione - questa volta, amichevole - fra studenti universitari arabi ed ebrei.

Il governo unitario palestinese è ancora lungi dal realizzarsi, malgrado le promesse roboanti di un anno fa. Nel frattempo il governo unitario israeliano viaggia a pieni giri, e partorisce proposte che non si esita a definire clamorose. Ieri il ministro della Difesa Barak ha dichiarato che non è da escludersi la possibilità che Israele si ritiri unilateralmente dai territori contesi, ottenuti dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. I negoziati fra le parti, auspicati dagli Accordi di Oslo che hanno originato l'Autorità nazionale palestinese tardano a manifestarsi, malgrado i ripetuti inviti in tal senso di Gerusalemme. Israele ha sempre restituito i territori occupati in seguito ai conflitti in cambio di pace: così ha fatto con l'Egitto, a cui restituiì il Sinai, e altrettanto ha fatto con la Giordania. Il disimpegno dal Libano e più avanti quello dalla Striscia di Gaza è stato invece unilaterale, e ha prodotto il terrorismo di Hezbollah a nord e di Hamas a sud. La prospettiva di liberare l'1.5% di territorio palestinese nel West Bank ancora occupato viene salutata con un misto di stupore e approvazione, ma c'è il concreto timore che ciò possa nuocere ancora una volta ai civili.
Nel frattempo, un'altra concreta iniziativa a favore della distensione, sempre purtroppo proveniente da Israele (e dire che ci vorrebbe ben poco dall'altra parte: ma Abu Mazen è impegnato ad usare il pugno di ferro contro i rivali di Hamas e contro la stessa opposizione interna ad Al Fatah...): il governo di Gerusalemme si è impegnato a restituire alle rispettive famiglie i corpi di 91 terroristi palestinesi, rimasti vittima di attentati da essi stessi scagliati nelle città israeliane. Fra questi, ci sono l'attentatore che uccise 18 persone ad una fermata d'autobus a Gerusalemme, l'autore di un attentato simile a Be'er Sheva (16 morti) e l'autore dell'attentato al Café Hillel di Gerusalemme (sei morti). Si spera che la restituzione dei corpi non sia seguita da deplorevoli episodi di celebrazione e di onoranza. Spesso in passato a questi criminali sono state intitolate strade e piazze. Speriamo che si volti pagina.

mercoledì 30 maggio 2012

Ma in che mondo viviamo?


Incredibile amici! ci sono donne in Arabia Saudita che se ne vanno in giro per centri commerciali con i capelli scoperti e con lo smalto per unghie! ma dove viviamo?!?! presto o tardi arriveremo al punto che pretenderanno di guidare un auto, o addirittura di votare!
Hanno fatto bene questi solerti cittadini ad avvertire la polizia religiosa. Le donne devono restare a casa, e quando escono devono coprirsi integralmente ed essere accompagnate da un maschio della propria famiglia. Ma dove arriveremo?!?!
Per fortuna la shaaria e la sottomissione della donna stanno prendendo piede in Tunisia, in Egitto e negli altri stati beneficiati dalla "primavera araba". Ah, potessimo avere noi europei questo rivoluzionario influsso. Ma non è il caso di disperare. Esempi di islamizzazione sono sempre più evidenti in Olanda - dove ieri l'ambasciatore siriano è stato prudentemente definito "persona non-grata", mentre altrove si procedeva all'espulsione senza tanti riguardi - in Belgio, in Francia, nel Regno Unito, in Germania e in tutto il Vecchio Continente...

Continuano le impiccagioni di Hamas a Gaza

Continua brutale la repressione dei palestinesi ad opera del regime dominante. Giornalisti e blogger sono intimiditi, vessati, arrestati e imprigionati a Ramallah, sotto il controllo dell'Autorità Palestinese di Abu Mazen. Peggiore sorte tocca ai palestinesi della Striscia di Gaza, sotto il diretto controllo di Hamas dopo le elezioni del 2006 e il colpo di stato dell'anno successivo che ha esautorato dalla Striscia i rivali di Al Fatah (con i quali sono sempre pendenti negoziati per la costituzione di un improbabile governo unitario).
Amnesty International rende noto che quattro palestinesi sono stati condannati a morte, probabilmente per impiccagione, dopo che il loro appello è stato respinto dalla corte di cassazione. Secondo i familiari di un detenuto la "verità" sarebbe stata estorta dalla polizia dopo torture.
Le imminenti esecuzioni seguono provvedimenti analoghi nel mese passato. Hamas si è distinta nell'ultimo anno per aver represso brutalmente la sollevazione popolare in seguito alle esecuzioni di profughi palestinesi da parte del regime di Assad nei campi siriani. L'organizzazione terroristica ha poi preso le distanze dal regime di Damasco, non più difendibile, ma mantiene ancora rapporti (finanziari) con l'Iran, che fa arrivare armi, munizioni e uomini attraverso la penisola del Sinai.

martedì 29 maggio 2012

La "crisi umanitaria" a Gaza

Continua la crisi umanitaria a Gaza.
Questa foto, scattata stamattina da Avital Leibovich al valico di Kerem Shalom, mostra un carico di "beni essenziali" scaricati e destinati all'enclave palestinese.
Gli europei che si lamentano del fiume di denaro che inviano da quelle parti, si consolino pensando che una parte ritorna indietro...
Nulla di nuovo, per la verità. Ci si chiede come saranno alimentate queste vetture, dal momento che il regime di Hamas, che controlla la Striscia dal 2005 dopo lo sgombero israeliano ordinato da Sharon nel 2005, vieta l'importazione di combustibile da Israele, preferendo comprare benzina sottocosto dal vicino Egitto, potendovi praticare una lucrosa cresta, a costo di lasciare l'intera popolazione letteralmente al buio.

lunedì 28 maggio 2012

Una soluzione per i profughi palestinesi

E' in discussione al Senato americano un disegno di legge la cui approvazione definitiva farebbe cambiare sensibilmente la questione mediorientale e i rapporti fra mondo arabo e Israele.
Come è noto, alla fine del 1947 le Nazioni Unite ripartirono l'ex protettorato britannico palestinese - ricevuto in consegna dopo la dissoluzione dell'impero ottomano di inizio anni '20 - in due stati: uno arabo, e uno ebraico. Gli ebrei accettarono la partizione, e l'anno successivo proclamarono lo stato di Israele. Gli arabi non accettarono la decisione storica, e convinsero gli arabi che vivevano nel neonato stato a riparare negli stati confinanti, prima di scatenare un conflitto che si risolse l'anno successivo in una bruciante sconfitta.
Gli arabi che ripararono in Egitto, in Libano, in Siria, in Giordania e in Iraq furono sistemati in campi profughi nei quali hanno vissuto per lunghi decenni. Senza diritti, senza cittadinanza - unico caso al mondo - senza possibilità di integrarsi nella società, di frequentarne le scuole, di praticarne le istituzioni. Cittadini di serie B a tutti gli effetti. I 6-700 mila arabi del 1948 sono diventati milioni. Così tanti, che l'ONU ha previsto una apposita agenzia: l'UNRWA. Un gigante burocratico che amministra fondi e li versa ai profighi palestinesi. Caso eclatante: a differenza dei profughi di tutti gli altri stati al mondo, i figli e i figli dei figli hanno conservato lo status di rifugiato.

Ma le più nobili intenzioni ad un certo punto si scontrano con la dura realtà. Mantenere 5 milioni di palestinesi costa. Un'impresa impossibile. I figli dei figli a loro volta si riproducono, e il conto delle bocche da sfamare e degli impiegati necessario per tenere il conto si moltiplica a perdita d'occhio. E' per questo che un senatore dell'Illinois ha presentato una proposta di legge che distingue fra gli arabi che lasciarono Israele nel 1946-48, e tutti coloro che sono nati successivamente. Il consistente contributo americano all'UNRWA (più di un miliardo di dollari) sarebbe da prevedersi soltanto per i primi. Ma in questo caso, l'investimento umanitario si ridimensionerebbe sensibilmente: a 30 mila dollari annui. I discendenti di chi si fece convincere dagli stati arabi belligeranti dovrebbero convincere gli stati ospitanti - come la Giordania, dove un terzo della popolazione vanta lo status di rifugiato - a concedere finalmente la cittadinanza a tutti gli effetti. Non a caso, Amman sta premendo sul Senato americano, in compagnia del Dipartimento di Stato, affinché la legge non venga promulgata.

Si tratterebbe di una svolta epocale. I profughi palestinesi non potrebbero essere più impiegati come arma nei confronti di Israele. Mancando un importante fonte di reddito, essi sarebbero indotti ad integrarsi negli stati arabi che da decenni ne ospitano la discendenza, senza riconoscere loro cittadinanza, a differenza di quanto si fa in ogni stato al mondo nei confronti dei figli degli emigranti. Il cosiddetto "diritto al ritorno", ancora oggi sbandierato dalla dirigenza palestinese come pre-condizione all'instaurazione di negoziati bilaterali, cesserebbe d'un tratto, e finalmente si potrebbe discutere di mutuo e pieno riconoscimento, di confini e - perché no? - di collaborazione economica e sociale.
Auguriamoci che la proposta di legge conosca una rapida approvazione. Dopo decenni di umiliazioni - l'Autorità Palestinese ha chiarito in passato che i profughi ospitati nei suoi campi (come quello di Betlemme, mostrato nella foto) non diventeranno mai suoi cittadini, nemmeno quando un giorno nascerà lo stato di Palestina, accanto a quello di Israele - di privazioni, di rinunce, forse il prossimo futuro farà assistere alla cessazione di questa vergognosa strumentalizzazione.

Si condanna il peccato, non il peccatore

Promette bene: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) all'unanimità domenica ha espresso una condanna per la carneficina di venerdì a Houla (vicino Homs) di siriani ad opera del regime di Assad: oltre 100 morti, di cui 49 bambini.
Ancora altri 15000 morti e vedremo i caschi blu. Nel frattempo, i siriani vedranno i sorci verdi.
Da notare: si condanna la strage più recente, non il massacro degli ultimi tredici mesi e tantomeno il mandante di questa strage.
Assad può stare tranquillo: l'Occidente non gli torcerà un capello. Al massimo un baffetto. Continui pure a ridurre il malcontento mediante sterminio degli oppositori. L'Iran nel frattempo ha ammesso di aver inviato truppe a sostegno del regime criminale di Assad.

domenica 27 maggio 2012

Ancora si parla di apartheid?

L'accusa di apartheid, che ancora oggi viene da taluni mossa nei confronti di Israele, fa ridere chi abbia un minimo di conoscenza della storia. Grottesco che si accusi lo stato ebraico di discriminazioni verso le minoranze; verso i neri: in uno stato che con le operazioni «Salomone» e «Mosé» è andato a prendersi i suoi neri in Etiopia e in Sudan; verso gli arabi, che rappresentano oltre il 20% della popolazione israeliana, e che partecipa pienamente e attivamente alla vita civile, politica e sociale di Israele.
Questa accusa, tanto superficiale quanto infame, poggia su una sciagurata risoluzione ONU del 1975, che considerava il Sionismo una forma di razzismo. Tale risoluzione è stata revocata dalle Nazioni Unite nel 1991; ma dopo più di vent'anni, quell'assurdo principio trova ancora ospitalità nelle menti di persone in malafade; sempre meno, onestamente. Ma sempre rumorose. Per questo, un paio di appunti possono giovare ad integrare quanto già detto in passato in questa sede.


di Dan Calic

Il termine "stato di apartheid", applicato ad Israele, ha guadagnato notorietà soprattutto dopo la pubblicazione nel 2006 del libro dell'ex presidente USA Jimmy Carter "Israele: pace, no apartheid". Il termine si riferisce alla condizione esistita in Sudafrica, dove una minoranza bianca pari al 20% della popolazione controllava la maggioranza nera attraverso un regime brutale e aggressivo, che includeva leggi segregazioniste e una polizia che sistematicamente picchiava e uccideva i neri godendo di impunità. I neri non godevano di diritto di voto e non potevano gestire attività commerciali.
Chi ha parlato di apartheid per Israele non ha colto il significato di questo termine, mancando di rilevare circostanze così fondamentali nel comparare queste realtà, che l'uso di questo termine risulta seriamente discutibile. Come si spiega il fatto che tutti i popoli chiamano "patria" la loro nazione, ma questo è giudicato razzismo se a farlo sono gli ebrei?
Un altro fatto taciuto riguarda gli arabi che vivono in Israele: ben contenti di farlo. Essi votano, hanno proprietà e attività commerciali, e non sanno cos'é la segregazione. Vivere in Israele è così allettante che in un paio di occasioni, quando l'Autorità Palestinese ha minacciato di annettere i quartieri orientali di Gerusalemme, l'ufficio israeliano per l'immigrazione è stato sommerso da richieste di arabi per ottenere la cittadinanza israeliana: nel timore di poter diventare cittadini arabi (palestinesi, NdT) dalla sera alla mattina.
Di converso, i neri del Sudafrica di sicuro non facevano la fila presso gli uffici governativi, costretti alla disperazione di essere soggiogati sotto il regime di apartheid. Qui l'apartheid era una escrescenza del Commonwealth britannico. Lo scopo era quello di garantire il controllo da parte dei bianchi. Nel caso di Israele la sua istituzione è stata garantito da un voto favorevole del 72% dei membri delle Nazioni Unite. Gli arabi nel frattempo avevano già ricevuto quasi il 90% delle terre originariamente ritagliato dal mandato britannico per farne la patria del popolo ebraico. Ma lungi dall'accettare una partizione estremamente vantaggiosa, gli arabi respinsero la proposta, e attaccarono Israele 24 ore dopo la proclamazione dello stato.

Da allora, la distruzione di Israele è stata l'ossessione del mondo arabo. Gruppi come l'OLP, Hamas, Fatah e Hezbollah sono stati costituiti, ciascuno con l'imperativo di distruggere Israele e sradicare il Sionismo, ben impresso nei rispettivi statuti. Da quando è stato proclamato lo stato ebraico, attacchi terroristici sono stati scagliati nei confronti delle famiglie israeliane. Fra il 1948 e il 1999, circa 2.000 israeliani hanno perso la vita per mano dei terroristi, per una media di 43 omicidi all'anno. Per sopperire a questo stillicidio, nel 2000 è stata avviata la costruzione della barriera di sicurezza: fu l'anno in cui partì la "seconda Intifada". Quell'anno vide una impennata delle morti di civili, da una media di 43 a 288 all'anno, fino al 2003, quando il primo stadio della costruzione della barriera di sicurezza fu portato a termine. Sembra che i detrattori di Israele trascurino questa escalation di uccisioni quando puntano il dito contro il "muro dell'apartheid"...
Oggi la barriera di protezione è completa per quasi il 70%, e il numero di attentati si è drasticamente ridotto. Ciò malgrado, i leader arabi continuano a lodare come eroi gli assassini, intitolando strade e piazze a loro nome. Quando una figura di spicco come il leader palestinese Mahmoud Abbas onora pubblicamente i terroristi omocidi, fa meraviglia che lo stato ebraico prenda contromisure per proteggere le proprie famiglie costruendo una barriera di sicurezza?
Nel tentativo di assicurare la sopravvivenza dell'unico stato al mondo per il popolo ebraico, di fronte agli arabi che sono teologicamente, politicamente e culturalmente impegnati nella sua distruzione, Israele è stato etichettato come "stato di apartheid". Per inciso, anche coloro che formulano questa accusa a loro volta si può dire che possano essere analogamente etichettati: come anti-semiti.

Fonte: Yedioth Ahronoth

venerdì 25 maggio 2012

Vanity Fair è turbata per la scelta oscena di Valeria Marini

La bellezza, si sa, è negli occhi di chi guarda. Ma su alcune scelte di stile non è il caso di discutere: sono riprovevoli e basta. Così, mentre le dive italiane si facevano apprezzare sul red carpet di Cannes per la loro indubbia eleganza, Valeria Marini si faceva cogliere con un particolare che lasciava inorridita la redattrice di Vanity Fair.
Indossava un orrido infradito? forse un abbinamento di colori improponibile? un abito troppo fasciato che lasciava intravvedere le indulgenze alimentari? nulla di tutto ciò...
La Valeriona nazionale indossava un accessorio riprovevole: un "ciondolo a stella", motivo di turbamento, che provocherebbe un effetto marchiatura "inquietante".
La Marini avrà forse apprezzato il suggerimento disinteressato dell'estensore della cronaca da Cannes: «Cara Valeria Marini, pensaci molto, ma molto bene prima di riproporre in pubblico questo dettaglio "di stile"».
Un invito dal sapore vagamente minaccioso: si può tollerare chi indossa la stella di David, purché lo faccia in privato; non in pubblico. Una croce che decora una profonda scollatura è fashion; un simbolo di appartenenza alla religione musulmana può essere osservato sulle passerelle di moda parigine; ma un simbolo ebraico giammai può essere considerato un dettaglio "di stile". Al contrario, è riprovevole, e gli sta bene alla Marini che abbia subito lo sfregio di quel simbolo sulla pelle, pare di sentire la Manfredi.
Anche se non lo rivela apertamente, nel sottotitolo che accompagna la foto si rincara la dose evidenziando il disonore di cui si sarebbe coperta la soubrette.
Fin troppo facile immaginare la prevedibile replica, se mai vi sarà: si trattava di considerazioni estetiche, non razziali o politiche. Forse a questo punto per non disgustare i lettori, sarebbe meglio tacere.

Continuano le persecuzioni ai danni dei giornalisti palestinesi

Dopo un paio di settimane di tregua, l'Autorità Palestinese torna a far parlare di se'; ancora una volta, purtroppo in negativo. Fatti cadere ancora una volta gli inviti al dialogo da parte del vicino Israele, la leadership di Ramallah continua l'opera di persecuzione ai danni di giornalisti e blogger, rei di rivelare al mondo mediante siti Internet, blog e social network la corruzione e l'inefficienza dilagante dell'Autorità Palestinese. Come riferisce Challah Hu Akbar sul suo blog, la triste sorte è toccata a Shadi Zamara, giornalista di 27 anni, convocato dai servizi segreti palestinesi martedì scorso. Zamara è stato interrogato per due ore e mezza circa la sua attività di denuncia. Rilasciato, è stato di nuovo raggiunto dagli agenti dell'AP, e interrogato e intimidito: la colpa, quella di aver rivelato pubblicamente le attenzioni che le autorità riservano a chi documenta il loro operato.

giovedì 24 maggio 2012

FIAT: filo-israeliana a tratti

Lo spot della fabbrica torinese che sta per andare in onda (solo) negli Stati Uniti, in italiano, ha come colonna sonora "You Hurt Me Anyway", del gruppo hard rock israeliano IUDM.

Ma non fatelo sapere agli arabi...

Un altro passo verso l'Atomica iraniana

Israele ha fatto decadere l'impegno a non colpire le installazioni nucleari iraniane prima delle elezioni presidenziali in USA previste per il primo martedì di novembre. Lo rivela un rapporto di Debka, secondo il quale i colloqui in corso a Baghdad fra il regime iraniano e i Grandi della Terra hanno accantonato l'obiettivo di cessare la produzione di uranio arricchito in misura superiore al 3.5% - pertanto per finalità puramente belliche - e la cessione del materiale fissile già prodotto all'estero (per una quantità già sufficiente a produrre quattro bombe atomiche presumibilmente già alla fine di quest'anno). Il presidente Obama ha cercato di compensare la disponibilità nei confronti del regime iraniano con la firma ad accordi commerciali fra USA ed Israele, ma la minaccia esistenziale ha irrigidito il ministro della Difesa di Gerusalemme, che invano si è rivolto al segretario di Stato USA affinché sollecitasse un intervento più risoluto del presidente USA.
I colloqui a Baghdad si rivelano così l'ennesima tattica per guadagnare tempo. Le sanzioni economiche sono dure, ma inefficaci nell'arrestare la corsa alla bomba atomica di Teheran. Specie se l'embargo mondiale rivela preoccupanti crepe, come la recente decisione del Giappone, che sta voltando pagina sull'uso dell'energia nucleare, di approvvigionarsi di greggio proprio dalla repubblica islamica iraniana.

Aggiornamento delle 12.00. Secondo Debka i "negoziati" a Baghdad fra Iran e resto del mondo sono arrivati ad un punto morto.
Semplicemente l'Iran vuole la bomba atomica: il mondo chiede di sospendere la produzione di uranio arricchito al 20% (pronti già 100 chili: il necessario per quattro bombe atomiche), e di limitarsi a produrne al 3.5%, quello che si utilizza per fini civili e non bellici. Chiede che l'impianto sotterraneo di Fordo venga smantellato.
L'Iran risponde: NO, NO e NO.
Se ne possono tornare tutti a casa. Con la convizione di aver regalato altro tempo prezioso.

mercoledì 23 maggio 2012

Ancora sul rumoroso silenzio del CIO

Le prossime Olimpiadi saranno coperte da un silenzio straziante. Il Comitato Olimpico Internazionale non ha ancora riconosciuto l'opportunità di osservare un minuto di silenzio in memoria delle undici vittime - undici atleti israeliani - del macabro attentato terroristico del 1972. Dopo quarant'anni, la fiamma dei ricordi non si spegne ancora. Quella olimpica, sì.
Moshe Weinberg, Yossef Romano, Ze'ev Friedman, David Berger, Yakov Springer, Eliezer Halfin, Yossef Gutfreund, Kehat Shorr, Mark Slavin, Andre Spitzer, Amitzur Shapira e Anton Fliegerbauer furono prelevati dalle loro camere nel villaggio olimpico di Monaco, nella (allora) Germania Federale. Furono picchiati e sequestrati. In cambio, i terroristi chiedevano la scarcerazione di 234 detenuti arabi rinchiusi nelle carceri israeliane per vari reati, e un salvacondotto verso l'Egitto. Lo scontro con una impreparata e dilettantesca polizia tedesca fu sanguinoso. Cinque terroristi persero la vita e tre furono arrestati, ma successivamente rilasciati dopo il dirottamento di un aereo della Lufthansa, sempre ad opera del gruppo terroristico palestinese "Settembre Nero". Tornati nei paesi di provenienza, furono salutati come eroi e accolti con tutti gli onori.
E' ripugnante il silenzio del CIO. Non è accettabile la spiegazione che un gesto umano e civile sarebbe accolto con irritazione dalla popolazione araba. Non è sicuramente così. Chi ama la pace non lo può accettare. E' un oltraggio nei confronti degli arabi.

Ricordare per un minuto le vittime del crimine non è un gesto politico. Non implica in alcun modo la condivisione della politica del governo israeliano, presente o passato o futuro. E' un gesto di fratellanza che lo spirito olimpico dovrebbe far rivivere, seppure ad intermittenza quadriennale. Rifiutare questa logica lampante equivale ad avallare simili tragedie nel futuro, come ha ricordato la signora Ankie Rekhess-Spitzer, vedova di uno degli atleti trucidati dai terroristi quarant'anni fa: «Non dimentichiamo ciò che è successo a Monaco. E facciamolo per una ragione: per evitare che accada di nuovo».


Danny Ayalon, vice-ministro degli Esteri israeliano, è come tutti indignato e sconcertato per il brutto gesto del CIO, ed esorta in un'intervista tutte le persone di buona volontà a fare un piccolo gesto, un gesto di un minuto, per indurre il comitato organizzatore a commemorare le vittime di quella strage.

Tutti si possono impegnare. Basta compilare la petizione online che la signora Spitzer ha avviato. Sono state già raccolte più di 80 mila firme. Si può ancora aggiungere il proprio sassolino. Come quelli che in segno di rispetto e di ricordo adornano le tombe degli ebrei.

martedì 22 maggio 2012

La malafede allontana la pace


Il judoka palestinese qualificato all'Olimpiade
E senza aiutini: «È una pagina storica»

Per quale motivo il Comitato Organizzatore delle Olimpiadi di Londra 2012 invita "per onor di bandiera" atleti palestinesi, e non usa lo stesso metro generoso nei confronti di atleti kurdi, del Kossovo, dell'Ossezia del Sud e di Cipro del Nord?
Perché, dal momento che la Palestina non esiste, se non come entità geografica, non certo come stato?
Pazienza per lo spirito olimpico andato in frantumi, e pazienza per le popolazioni degli altri non-stati, figli di un dio minore. Pazienza per le deroghe, lo sport ha smesso da tempo di essere un gioco, e non sarà un problema per nessuno fornire ospitalità a cinque giovani arabi che forse non hanno mai messo il naso fuori dalle loro scomode città. Poco fa ho evidenziato un bellissimo quanto microscopico gesto di integrazione fra arabi ed ebrei, fra palestinesi ed israeliani, che rappresenta un timido germoglio di pacifica convivenza. Ma l'ottusità e la malafede lo ha già spazzato via.
Diversi atleti palestinesi, residenti nel West Bank, si allenano da tempo e in armonia in Israele. Si potrebbe argomentare che la montagna di milioni di dollari che arrivano dall'Occidente sono inghiottiti dalla corruzione dilagante dell'Autorità Palestinese, al punto che non ci sono soldi nemmeno per comprare un pallone, quando si potrebbero costruire interi stadi. Lo stesso Maher Abu Rmeileh, che apprendiamo ha conquistato per meriti l'accesso alle Olimpiadi, è di Gerusalemme Est. Una città che non esiste. Esiste Gerusalemme, che è la capitale di Israele, per cui Abu Rmeileh è un arabo israeliano, come un milione di arabi residenti felicemente nello stato ebraico. Che senso ha fare confusione? calcolo politico?
Forse è per questo che, come sottolinea compiaciuto il perfido Battistini, Londra si è rifiutata di ricordare, anche solo per un minuto, le undici vittime della strage perpetrata nel 1972 a Monaco dai terroristi palestinesi dell'OLP di Arafat - di cui, ricorda il Corriere, era consigliere Jibril Rajoub, oggi a capo dello sport nei Territori, "che ormai crede più nei judoka che nei jihadisti". Undici atleti, israeliani, che avevano conquistato le Olimpiadi per meriti e per pacifica appartenenza alla comunità internazionale, il cui sogno fu spezzato dai kalashnikov dei terroristi di Settembre Nero. Non tanto perché ormai sono passati quarant'anni - 'che altrimenti la commemorazione dei defunti dovrebbe essere stata cancellata da tempo dal calendario; ma «per non imbarazzare gli arabi».
Assurdo. Raccappricciante. Inquietante: come se si evitasse di stigmatizzare il nazismo davanti alla signora Merkel, nel timore di disturbarla. Come se gli arabi possano avere qualcosa in contrario nel commemorare le vittime del terrorismo. Come se si avallasse la tesi secondo cui i residenti arabi di Londra simpatizzino indistintamente per i criminali. Come se gli arabi e i musulmani siano tutti terroristi. No, caro Battistini: non è solo Israele a voler ricordare le vittime di una carneficina premeditata. A volerlo è tutto il mondo civile. A cui Lei non è degno di appartenere.

E' guerra delle caramelle fra Libano e Israele

Sul Daily Star, quotidiano libanese in lingua inglese, si legge una notizia che ha del grottesco. La polizia palestinese, che controlla uno dei tanti "campi profughi" al confine con Israele, ha sequestrato domenica una grossa partita di caramelle. Erano tossiche? provocavano la carie? erano forse scadute? nulla di tutto questo: le caramelle avevano un involucro in turco e siriano, ma una volta scartate denunciavano la provenienza: israeliana. Non erano di dimensioni infime ne' avevano un qualche "naso" adunco, ma semplicemente avevano un secondo incartamento, in ebraico.
Sconvolgimento e indignazione delle autorità che controllano il campo profughi di Ain al-Hilweh. Le caramelle sono state distrutte, onde preservare la purezza dei bambini ospiti loro malgrado del campo. La polizia sta investigando sulla provenienza delle caramelle, e ha dichiarato che bisogna fare di tutto per combattere Israele, anche sul piano economico.
Lo stato ebraico è l'unico che ha visto crescere il suo rating fra i paesi industrializzati dopo la crisi economica del 2008, e nell'ultimo anno ha visto la sua economia crescere del 3.3%: il doppio della Germania, il 50% in più della crescita degli Stati Uniti (mentre l'Europa sprofonda in recessione). Merito forse di una vendita globale di caramelle. O più probabilmente, di un sistema istituzionale che garantisce benessere alla popolazione, e da cui gli stati confinanti dovrebbero trarre spunto, e potrebbero trarre beneficio, anziché combattere ridicole crociate.

Come portare la pace in Medio Oriente?

Lo sport come mezzo per incoraggiare la pace? mentre la lettera accorata di Pietro Mennea raggiungeva il Comitato Olimpico e il primo ministro inglese, esortati a ricordare le 11 vittime israeliane dell'attentato terroristico del 1972 in occasione delle Olimpiadi di Monaco; più lontano, in uno sperduto villaggio del West Bank, una squadretta di giovanotti ebrei sfidava una rappresentanza di calciatori palestinesi, nella partita inaugurale di un campetto di calcio appena costruito.
Il risultato non conta. Quello immediato. Quello in prospettiva conta molto di più: la tolleranza e il rispetto reciproco. La soluzione "due popoli due stati" va bene a tutti, ma è fumosa e inconsistente: chi non la vorrebbe? bisogna specificare COME arrivare ad una simile soluzione. Qualunque discussione su una pace stabile in Medio Oriente deve poggiare sulla convivenza armoniosa e pacifica. Solo in questo modo vincono tutti e non perde nessuno.

martedì 15 maggio 2012

Guai a documentare il disprezzo dei filo-palestinesi

Generalmente le manifestazioni di odio verso lo stato israeliano (mai verso gli stati canaglia: Iran, Turchia, Libia, Cuba, nord Corea, Sudan, ecc.) nascondono goffamente un vero e proprio sentimento antisemita. Chi si prende la briga di smascherare questa realtà subisce un destino spesso pesante. E' il caso di Richard Millett, giornalista e blogger inglese, che denuncia spesso la reale finalità antisemita di questi incontri, organizzati da sedicenti organizzazioni filopalestinese, a cui riesce a partecipare.

Lunedì sera Millett è stato strapazzato, strattonato, minacciato e intimidito, mentre era intento a registrare e documentare le farneticazioni dei relatori, ad un incontro tenuto presso l'università di Londra; pertanto, pubblico. Millett è stato prima affrontato da un voluminoso energumeno, che gli ha intimato di spegnere la telecamera.
Fra i relatori c'erano Karma Nabulsi, ex membro dell'OLP e Abdel-Bari Atwan, "giornalista" noto per aver dichiarato in passato che «se un missile iraniano colpirà Israele, andrò a Trafalgar Square e ballerò per ringraziare Allah».
L'incontro è stato preceduto da una visione che mostrava uno stato palestinese che copriva tutto Israele. Per documentare questo affronto, Millett ha iniziato a filmare, ma dopo otto secondi è stato affrontato e intimato di smettere di registrare: «sei il tipico israeliano, lo sai, vero?», in tono dispregiativo. L'energumeno ha afferrato la telecamera di Millett e lo zaino con i suoi effetti personali, dileguandosi, sparpagliando telefonino, portaocchiali e registratore per terra.
Nel frattempo il pubblico, incitato, ha cominciato ad urlare al malcapitato di andar via. La diffamazione non veniva bene con quel "fastidioso disturbatore"...

Nakba: una ferita autoinflitta dai palestinesi

di Alan Dershowitz

I palestinesi commemorano in questi giorni la "nakba", il giorno del disastro, della catastrofe. Lo chiamano così perché a loro dire furono privati della madrepatria e furono resi profughi sin dalla nascita. Alcuni comparano questa catastrofe addirittura all'Olocausto. L'impressione generale è che questa sia una sciagura inflitta dagli israeliani. E' ora che questa falsità sia collocata nel contesto storico.
La nakba fu una catastrofe, ma in effetti fu una ferita auto-inflitta. Ciò fu la diretta conseguenza del rifiuto della leadership palestinese e in generale araba di accettare la soluzione dei due stati proposta dalle Nazioni Unite nel 1947-48. L'ONU divisa ciò che rimase della "palestina storica" (assegnata agli inglesi dopo la dissoluzione dell'impero ottomano all'inizio degli anni '20, NdT), dopo aver ricavato la Transgiordania, in due stati di dimensioni approssimativamente simili (gli israeliani ebbero una porzione di terra lievemente superiore, ma la terra concessa agli arabi era più coltivabile). Gli israeliani avrebbero controllato un territorio in cui gli ebrei erano largamente prevalenti, mentre i palestinesei avrebbero controllato un territorio in cui gli arabi erano maggioranza. Israele accettò la partizione dell'ONU e dichiarò lo stato. I palestinesi respinsero la delibera dell'ONU e attaccarono Israele con il supporto di tutti gli stati arabi confinanti.
La difesa dall'aggressione comportò ingenti perdite umane in Israele, dove un abitante su 100 perse la vita. Nella guerra che fu scatenata - un vero e proprio tentativo di genocidio - 700 mila palestinesi lasciarono le loro case, alcuni volontariamente, altri pressati dalla leadership araba, altri ancora costretti dagli eventi bellici. Fu invero una catastrofe per ambo le parti (che provocò negli anni successivi l'estirpazione violenta di 850 mila ebrei dagli stati arabi del nord Africa: una massa di rifigiati che incomprensibilmente non ha mai conquistato il dibattito pubblico, NdT); una catastrofe però provocata dall'intransigenza dei palestinesi e degli arabi.
Alla fine delle ostilità, la Giordania occupò il West Bank, mentre l'Egitto si impossessò della Striscia di Gaza. Non c'è mai stata una condanna di questa occupazione da parte delle Nazioni Unite, sebbene essa fu brutale e negò ai palestinesi autonomia e sovranità. Solo quando Israele occupò queste terre, in seguito ad una nuova guerra (dei Sei Giorni, 5-10 giugno 1967, NdT) scatenata da Giordania ed Egitto, l'occupazione diventò oggetto di attenzione da parte della comunità internazionale.
Questa è la verità storica. Il mondo riesce facilmente a comprendere come questa "catastrofe", da distinguersi da tragedie immani come l'Olocausto, avrebbe potuto essere facilmente prevenuta se i palestinesi avessero davvero desiderato un loro stato, più di quanto abbiano bramato la distruzione dello stato ebraico di Israele. I tedeschi non celebrano la catastrofe risultante dall'invasione della Polonia; i giapponesi non festeggiano la catastrofe che scaturì dal bombardamento di Pearl Harbor. Perché i palestinesi celebrano la sciagura che risultò dall'attacco degli stati arabi nei confronti di Israele?

Fonte: Huffington Post

lunedì 14 maggio 2012

Geert Wilders: a cosa stiamo rinunciando

Mentre scrivo queste righe, ci sono delle guardie del corpo davanti alla porta. Nessun visitatore è ammesso nel mio ufficio senza attraversare diversi controlli di sicurezza. Sono un condannato a morte. Sono costretto a vivere in un rifugio protetto. Ogni mattina mi dirigo presso il mio ufficio al parlamento olandese in un auto blindata con sirene e lampeggianti. Quando esco sono circondato, ormai da sette anni da agenti di pubblica sicurezza. Quando parlo in pubblico indosso un giacchetto antiproiettile.
E chi sarò mai? Non sono né un re né un presidente, e nemmeno un ministro di un governo. Sono soltanto un normale politico olandese. Ma dal momento in cui mi sono scagliato contro la crescente influenza islamica in Europa, ho subito una condanna a morte. E’ il rischio che si corre quando si critica l’Islam. Ecco perché molti politici si guardano bene dal dire la verità circa la più grave minaccia per le nostre libertà. La minaccia islamica all’Occidente è superiore di quanto lo sia mai stata la minaccia del comunismo, se consideriamo che i politici che hanno messo in guardia dalla minaccia dell’Unione Sovietica, non sono mai stati costretti a nascondersi.
Ho ricevuto le prime minacce di morte a settembre 2003 dopo aver chiesto al Parlamento olandese di effettuare indagini su di una moschea radicale. Quando le minacce di morte sono diventate più frequenti, le autorità mi hanno assegnato una scorta. A novembre 2004 dopo che un fanatico mussulmano ha assassinato il regista olandese Theo Van Gogh, reo di aver realizzato un film sugli abusi subiti dalle donne nell’islam, poliziotti armati di fucili automatici hanno fatto irruzione a casa mia, mi hanno spinto in un auto blindata e mi hanno portato via in piena notte. E’ stata quella l’ultima volta che ho visto casa mia. Da allora ho vissuto in rifugi dell’esercito, nella cella di una prigione e ora in una casa protetta di proprietà del Governo. Mi sono abituato a questa situazione. Dopo più di sette anni, i dettagli sulla sicurezza fanno ormai parte della routine quotidiana, ma in una società libera nessun politico deve temere per la sua esistenza a causa del mandato ricevuto dagli elettori.
Né gruppi particolari dovrebbero essere legittimati a spazzare il nostro principio della libertà di parola come hanno cercato di fare le organizzazioni islamiche e progressiste, trascinandomi in giudizio con l’accusa di incitazione all’odio. Dopo quasi tre anni di processo sono stato prosciolto da ogni accusa.

Più Islam uguale meno libertà

Ero solito viaggiare molto nel mondo islamico, ma adesso esso non è per me più un posto sicuro. Ho letto il corano e studiato la vita di Maometto. Ciò mi ha portato a concludere che l’Islam è soprattutto una ideologia totalitaria piuttosto che una religione. Mi dispiace per gli arabi, i persiani, gli indiani e gli indonesiani che devono vivere sotto il giogo dell’Islam. E’ un sistema di principi che condanna gli apostati alla morte, induce i critici a nascondersi e nega il principio occidentale della libertà dell’individuo. Senza libertà non vi può essere prosperità né felicità. Più Islam vuol dire meno vita, meno libertà, meno felicità.
Ecco perché considero mio dovere suonare l’allarme circa l’espansione incontrastata dell’Islam. Sebbene molti musulmani siano moderati, l’Islam non lo è. Alcuni musulmani prendono l’Islam alla lettera e finanziano la jihad (guerra santa) contro l’Occidente, e lo fanno all’interno dei nostri confini.
Il 57% degli olandesi ritiene che l’immigrazione di massa è stato l’errore più grande nella storia dell’Olanda. Molti politici tuttavia minimizzano il cambiamento sociale più drastico di tutta la loro esistenza: ignorano le preoccupazioni della gente al di la della loro correttezza politica e relativismo culturale, che porta loro a ribadire che tutte le culture sono uguali; per cui, gli immigrati non avrebbero alcun bisogno di integrarsi: i valori dell’Islam sarebbero buoni come quelli olandesi, inglesi o americani.

A cosa stiamo rinunciando

Se non ci opporremo all’islamizzazione, perderemo tutto: la nostra libertà, la nostra identità, la democrazia, lo stato di diritto. Per proteggere la civiltà occidentale, dobbiamo fare quattro cose: difendere la libertà di parola, respingere il relativismo culturale, contrastare l’islamizzazione, e propugnare la nostra identità occidentale, che siamo noi olandesi, francesi, inglesi o americani.
Di tutte le libertà quella di parola è la più importante. La libertà di parola è la pietra miliare di una società libera. Fino a quando saremo liberi di manifestare il nostro pensiero, riusciremo a evidenziare alla gente quello che stiamo rischiando. In democrazia non regoliamo i nostri disaccordi con la violenza, ma mediante argomentazioni discusse e scritte. Allo scopo di perseguire la verità, consentiamo a tutti di esprimere i propri punti di vista. E’ così che abbiamo superato l’era barbarica, diventando una società libera e prosperosa. Ed è quello che dobbiamo insegnare ai nostri bambini.
Ho scritto un libro a difesa della libertà e del diritto di libera espressione, intitolato “Marked for Death” (Condannato a morte). Esso spiega i diversi modi con cui l’Islam ha condannato a morte non solo me ma tutta la civiltà occidentale. Il libro mette in guardia circa i pericoli del chiudere un occhio davanti alla vera natura dell’Islam.
Sebbene l’Islam minacci l’Europa e l’America, non tutto è perduto in Occidente. Esso sopravvivrà fino a quando la libertà di parola resterà garantita. Sebbene, l’Islam mi abbia condannato a morte, un crescente numero di elettori olandesi mi ha fornito il suo appoggio. In Olanda abbiamo iniziato ad invertire la tendenza all’islamizzazione. Ci possono riuscire anche altri Stati. Non me ne resterò mai in silenzio perché non permetterò mai che fanatici violenti decidano quello che possiamo dire e quello che possiamo leggere. Dobbiamo opporci alle loro regole soffocanti. Dobbiamo per usare le parole di John Stark, “vivere liberi o morire”.

Fonte: Creeping Sharia

domenica 13 maggio 2012

Abu Mazen chiama, Netanyahu risponde

Il processo di pace in Medio Oriente fa un piccolo passo in avanti, ma la cautela e lo scetticismo prevalgono. Abu Mazen ha ricevuto ieri sera a Ramallah un emissario del capo del governo di Gerusalemme, latore di una missiva contenente il percorso che Netanyahu propone per rilanciare il processo di pace.
Le discussioni si sono interrotte nell'autunno di due anni fa, quando in imminenza di scadenza della moratoria di dieci mesi concessa da Israele relativamente all'attività edilizia nei territori contesi, l'Autorità Palestinese ebbe un sussulto di vitalità e pretese una ulteriore dilazione come condizione per procedere ai negoziati di pace. Un'occasione persa che provocò la comprensibile irritazione dell'opinione pubblica mondiale, attonita per l'assenza prolungata di Abu Mazen dal tavolo delle trattative.
Il processo di pace si è rivitalizzato nelle ultime settimane con due episodi; prima, con la lettera che Abu Mazen ha inviato a Gerusalemme, contenente le solite pretese irricevibili (la fissazione di confini sulla base delle linea fissate dal "cessate il fuoco" del 1949, la liberazione dei detenuti palestinesi, il riconoscimento dei quartieri orientali di Gerusalemme come futura capitale dello stato palestinese, e la cessazione immediata dell'attività edile nei territori contesi). Non è noto il contenuto della lettera che Netanyahu ha inoltrato al presidente dell'Autorità Palestinese, ma è facile supporre che contenga linee guida più ragionevoli; fermo restando che, in ossequio agli Accordi di Oslo del 1993 che hanno dato vita alla stessa Autorità Palestinese, la creazione di due stati nella palestina storica è il punto di arrivo di negoziati bilaterali, e non di iniziative unilaterali - come l'avventura infelice di Abu Mazen alle Nazioni Unite lo scorso anno, avversata da buona parte della stessa dirigenza palestinese - ne' da pre-condizioni che minano in partenza lo stesso processo di pace.
L'altro episodio, più recente, è stato l'allargamento della compagine governativa israeliana per cooptazione del partito Kadima in precedenza all'opposizione, con il quale l'Esecutivo di Gerusalemme gode ora della maggioranza più corposa dalla nascita di Israele, e che permetterà di intraprendere iniziative che assumeranno rilievo storico, possiamo esserne certi.

Mentre a Ramallah si ragionerà sul contenuto della nuova proposta israeliana per tornare finalmente a sedersi al tavolo delle trattative, altrove nei prossimi giorni gli animi si riveleranno ben più surriscaldati. Ricorre ancora una volta l'anniversario del Nakba, la "sciagura" degli arabi che si fa coincidere con la fondazione dello stato di Israele. Ancora una volta si porrà l'enfasi sulla sorte dei 700 mila arabi che lasciarono il neonato stato ebraico, convinti in ciò dagli stati arabi confinanti che stavano per scatenare una gigantesca offensiva, risoltasi come sappiamo in cocente sconfitta. Ancora oggi si pone poca enfasi sulla sorta toccata invece agli 850 mila ebrei che fino ad allora vivevano in pace nei paesi arabi, costretti a lasciare tutto per la pulizia etnica che toccò loro. Alcuni commentatori rovesciano il ragionamento, parlando di pulizia etnica in Israele. Strano modo di ragionare, con riferimento ad uno stato dove il 20% della popolazione è araba, partecipa attivamente alla vita civile e politica, gode di pieni diritti, siede in parlamento e sui più alti banchi della giustizia. Nei paesi arabi, di converso, la popolazione ebrea è calata da un milione a 4000 persone. E la "primavera araba" sta decimando ulteriormente questa simbolica presenza, nel silenzio (imbarazzato) generale.

giovedì 10 maggio 2012

Chiusa l'agenzia UNRWA a Ramallah

La sede di Ramallah dell'UNRWA - l'agenzia ONU "specializzata" nel perpetrare a caro prezzo la condizione di profughi dei discendenti degli arabi che nel 1948 abbandonarono il neonato stato di Israele, convinti in ciò dai belligeranti stati arabi confinanti, che poi li hanno abbandonati al loro destino - è stata chiusa da diecine di manifestanti palestinesi. Questo non per protesta contro l'assurda politica delle Nazioni Unite, che non preme affinché gli stati ospitanti concedano la cittadinanza ai discendenti dei profughi costretti a vivere in luridi campi, senza diritti ne' prospettive di decenza; ne' perché l'UNRWA si sia macchiata di particolari crimini.
Il motivo è un altro: l'UNRWA non sostiene apertamente la decisione solitaria di Abu Mazen, che incita i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane - fra cui pericolosi terroristi appartenenti alla Jihad Islamica - che da alcune settimane sono in sciopero della fame. Chi ricorda la triste vicenda di Gilad Shalit, il caporale israeliano rapito da palestinesi in sconfinamento e detenuto per cinque anni in un posto sconosciuto, senza possibilità di comunicare con altre persone, ne' di essere visitato dalla Croce Rossa, ne' di ricevere alcun sostegno o solidarietà dall'esterno; sorriderà, pensando al fatto che malgrado le loro nefandezze questi criminali detenuti presso le carceri israeliane, possono leggere libri e giornali, incontrarsi con le rispettive famiglie, consultarsi con avvocati, rilasciare interviste a media compiacenti, e persino ottenere pasti che sdegnatamente ora rifiutano.
L'UNRWA non si pronuncia su questa disparità di trattamento. Ma questa relativa equidistanza non basta a questo gruppetto di manifestanti, che hanno pensato bene di occupare la sede del West Bank dell'agenzia ONU. Ci farebbero un grosso favore se ne smantellassero ogni pezzo, sollecitando la liquidazione di questo cervellotico quanto inutile carrozzone.

mercoledì 9 maggio 2012

Detto fatto

Così vicini, eppure così lontani. Il proposito di formare un governo palestinese unitario appare sempre più irrealizzabile, alla luce dei contrasti sempre più aspri fra l'ANP di stanza a Ramallah, nel West Bank, e Hamas, che "governa" la Striscia di Gaza. A fronte di questa prevedibile paralisi, ha destato meraviglia la decisione clamorosa del primo ministro di Gerusalemme di annullare il proposito di indire elezioni anticipate per il prossimo autunno, preferendo la formazione di un governo allargato al principale partito di opposizione: Kadima. Un governo che di fatto si è già insediato, e che può contare su ben 94 membri della Knesset su 120. Mentre il neo-vice premier israeliano fissa già un incontro con la responsabile per la politica estera europea per discutere lo scottante tema della bomba atomica iraniana, a Ramallah il capo del governo Salam Fayyad, sempre più in contrasto con il presidente dell'ANP Abu Mazen, riconosce che la spinta propulsiva del movimento è prossima al termine. Contrasti, dissapori, crescente disaffezione da parte di un popolo sempre più contrariato per gli episodi di corruzione dilagante, e provato da un montante autoritariasmo con tanto di arresti e censure. Ma soprattutto... l'ANP è a corto di quattrini. Fayyad fu risolutamente contrario all'iniziativa velleitaria di Abu Mazen, che in spregio agli Accordi di Oslo - che hanno riversato sulla dirigenza palestinese fiumi di denaro - si presentò al Consiglio di Sicurezza dell'ONU per chiedere un improbabile riconoscimento. E si è rifiutato qualche settimana fa di fare il "postino" del successore dal 2005 di Arafat, allorquando il leader di Al Fatah ha recapitato a Netanyahu una missiva che tentava di sollecitare la ripresa del processo di pace partendo dalle solite inaccettabili pretese. E ancora, pare di capire, non condivide il tentativo di Abu Mazen di provocare il sollevamento popolare, incitando una terza intifada in caso di morte dei detenuti nelle carceri israeliane, da alcune settimane in "sciopero della fame". La strada del dialogo è rilanciato dal governo unitario israeliano, che può parlare a questo punto a nome della stragrande maggioranza della popolazione, senza subire l'influenza dei partiti di destra che si identificano con il ministro degli Esteri Lieberman. Ma per dialogare occorre essere in due. Con chi si deve discutere? con la fazione integralista di stanza a Gaza (che per inciso conserva ancora il proposito di proseguire la lotta armata fino all'annientamento di Israele)? o con i rivali del West Bank, fra loro divisi come non mai, e la cui leadership è delegittimata da un mandato scaduto da quasi tre anni? (e lo credo bene: se si tenessero elezioni Abu Mazen sarebbe spazzato via...)

Operazione Isotopo

Ieri ricorreva il 40esimo anniversario del dirottamento del volo 571, operato dalla compagnia aerea belga Sabena. Il volo, partito da Vienna, era destinato a Tel Aviv, ma fu dirottato dopo pochi minuti dal decollo da un commando di quattro terroristi palestinesi, che chiedevano la liberazione di un nutrito gruppo di criminali detenuti nelle carceri israeliane.
Il gruppo cercò invano di entrare nella cabina di pilotaggio dell'aereo, dove il capitano Levy con impressionante freddezza intrattenne i passeggeri dall'altoparlante, con aneddoti e addirittura barzellette spinte. Fra una battuta e l'altra, il capitano dell'aereo inviò messaggi in codice, che furono captati dall'intelligence israeliana, guidata da Moshé Dayan, il quale diede immediatamente il via ad una spettacolare operazione di recupero degli ostaggi, nota come "Operazione Isotopo".
L'aereo atterrò a Tel Aviv, dove fu fatto scendere il capitano con parte dell'esplosivo che i terroristi minacciavano di impiegare se non fossero stati rilasciati i detenuti palestinesi. In risposta giunse una squadra di tecnici, in tuta bianca, che sollecitavano un urgente intervento di manutenzione. Fra i 16 membri del commando vi erano Ehud Barak e Benjamin Netanyahu, che successivamente avrebbero assunto la carica di primo ministro dello stato ebraico.
Il reparto di elite eliminò due terroristi, catturando gli altri due e liberando gli ostaggi. I due terroristi arrestati sarebbero stati condannati all'ergastolo, ma rilasciati nel 1982 in seguito ad uno scambio di prigionieri successivo alla Guerra del Libano.

Fonte: IDF.

martedì 1 maggio 2012

Un po' di vacanza le farà bene

In un giorno di riposo, fa piacere apprendere (da Honest Reporting) che Khulood Badawi abbia deciso di accettare il consiglio di prendersi un periodo di vacanza. Auspicabilmente, per un arco di tempo abbastanza lungo da consentirci di dimenticarci di lei.
Il caso di Khulood Badawi è balzato alla cronaca poco più di un mese fa (qui e qui). L'attivista filo-palestinese ha diffuso tramite il suo account Twitter immagini laceranti di una bambina straziata, spacciandola per vittima di un attacco aereo israeliano. In realtà si è subito scoperto trattarsi di una bimba rimasta vittima, diversi anni fa, di una rovinosa caduta in un dirupo. Poco male, di bufale su Internet ne girano parecchie, e la propaganda filopalestinese è solita ricorrere a questi mezzucci un po' vergognosi per la verità, per discreditare lo stato israeliano in cui peraltro diversi palestinesi trovano salvifiche cure mediche. Il problema è che Khulood Badawi risulta essere dipendente dell'agenzia ONU per il coordinamento degli aiuti umanitari: un gigantesco conflitto di interessi che ha scatenato la giusta indignazione mondiale, che a gran voce ha chiesto le dimissioni dell'attivista.

Si apprende oggi che la Badawi è stato di fatto sospesa dall'agenzia presso le Nazioni Unite, se non proprio licenziata. Grottesco che ciò avvenga il giorno della festa del lavoro, ma tant'é. L'articolo riportato da Honest Reporting fa riferimento ad una fonte palestinese, secondo cui la dipendente ONU è rimasta a casa per tutte queste settimane, in attesa che si compissero le indagini dell'organismo sovranazionale. Ma ora l'attivista non risponde al telefono, ne' alle e-mail; è irreperibile: apparentemente in vacanza. Le farà bene...

La questione dei rifugiati palestinesi (II Parte)

di Danny Ayalon

La prima parte è leggibile qui.


La triste verità è che i rifugiati arabi (convinti dagli stati confinanti ad abbandonare Israele nel 1948 prima di scatenare la guerra di annientamento, conclusasi però con una sconfittà, NdT) non hanno mai avuto un'opportunità. I tentativi di insediarsi nei nuovi stati sono sempre stati vanificati da una serie di leggi discriminatorie, come il diniego di concessione della cittadinanza - con l'eccezione della Giordania - il divieto di esercitare diverse professioni, restrizioni al diritto di proprietà delle terre, limitazioni alla libertà di circolazione, e il mancato accesso all'istruzione e alle prestazioni sanitarie.
Sir Alexander Galloway, ex direttore dell'agenzia ONU per i rifugiati in Giordania, così spiegò i motivi di queste discriminazioni: «le nazioni arabe non vogliono risolvere il problema dei rifugiati. Lo vogliono mantenere in essere, come una ferita aperta, come arma contro Israele». Il presidente egiziano Nasser spiegò in seguito gli effetti di questa "arma", finalizzata a eclissare Israele dal punto di vista demografico, con generazioni di rifugiati educati e istigati all'odio: «se i rifugiati dovessero tornare in Israele, Israele cesserà di esistere».
Quale è stato il ruolo delle Nazioni Unite? tristemente tutt'altro che utile. Mentre tutti i rifugiati del mondo sono assistiti dall'UNHCR, l'agenzia ONU per i rifugiati, una agenzia apposita - l'UNWRA - è stata istituita specificamente per i palestinesi. Per quale motivo i rifugiati palestinesi non possono condividere un'agenzia ONU con i rifugiati - fra gli altri - di Bosnia, del Congo o del Darfur? Perché l'agenzia principale dell'ONU è impegnata a favorire il reinsediamento dei rifugiati nei paesi ospitanti; mentre l'agenzia per i rifugiati palestinesi è finalizzata a perpetrare la loro condizione mediante l'applicazione di criteri unici.
Ad esempio: i rifugiati perdono la loro condizione dopo aver ricevuto la cittadinanza di uno stato riconosciuto come tale; per i palestinesi, questo non è previsto. I rifugiati non trasmettono la loro condizione di generazione in generazione, come invece è previsto e consentito per i palestinesi. I rifugiati di tutto il mondo sono incoraggiati a integrarsi in altri stati o in quelli ospitanti; l'UNRWA non contempla queste politiche. Le Nazioni Unite spendono per ogni singolo palestinese quasi il triplo rispetto alla spesa per i rifugiati non palestinesi, ed impiega un personale di 30 volte superiore.
In definitiva, durante il XX Secolo le Nazioni Unite hanno escogitato soluzioni durature per diecine di milioni di rifugiati, mentre l'agenzia per i rifugiati palestinesi non ha prodotto nulla. Qualcuno potrebbe sostenere che sia tutta ipocrisia. E allora consentitemo una riflessione personale: la famiglia di mio padre fu cacciata via dall'Algeria, assieme agli ebrei - 600 mila - di altri stati arabi, che ripararono in Israele. La storia del secolo scorso ha dimostrato che il reinsediamento e l'integrazione ha aiutato diecine di milioni di rifugiati a ritornare alla vita. Tuttavia, i rifugiati palestinesi sono intrappolati fra i leader arabi indisponibili ad accettare i loro fratelli, e le agenzie ONU che non applicano principi universali previsti per tutti i rifugiati del mondo.

E fu così che fu inventato il "popolo palestinese"...

Oggi l’Italiano Medio si commuove pronunciando la parola “Palestina”, perché crede sia il nome della Terra di Gesù. Ne è convinto: un po’ perché a scuola ha studiato svogliatamente la storia, un po’ perché i libri di testo spesso fanno schifo. Così accade che l’Italiano Medio ignori che il nome “Palestina” fu imposto a quella terra solo nell’anno 70, come dispregiativo (Palestina=terra dei Filistei, popolo già a quel tempo estinto da secoli), insieme al nome di ”Aelia Capitolina” per Gerusalemme. Nomi imposti con odio verso gli ebrei che proprio non volevano arrendersi alla potenza di Roma.
E così fu inventata la “Palestina”, quell’area formata dalle province che gli stessi Romani avevano sempre chiamato “Iudea”, “Samaria”, “Galilaea”.
“Palestina”, quella che in seguito, per molti secoli, è stata ”Sancak-i Kudüs-i Şerif”, sangiaccato di Gerusalemme, la regione a maggioranza ebraica della “Suriye eyaleti“, la provincia di Siria dell’Impero Ottomano. “Palestina”. Nome che ritorna in uso solo dal 1920 al 1948 con il ”Mandato Britannico” (modo ipocrita e molto inglese per dire “colonia”).

“Palestina”, terra che gli Ebrei hanno sempre chiamato “Israele”, così come i Greci hanno sempre chiamato “Hellas” la loro terra, quella regione del Mediterraneo che per noi è “Grecia” e per i Turchi era, ed è tutt’oggi, “Yunanistan”. Il 14 maggio del 1948, con la nascita di “Medinat Israel” (lo Stato d’Israele) il nome “Palestina” muore. Muore, ma poi risorge il 17 luglio 1968 con la “Risoluzione del Consiglio Nazionale Palestinese”, che recita:
«La Palestina è la patria del popolo arabo palestinese; è parte indivisibile della nazione araba, di cui il popolo palestinese è parte integrante. La Palestina, entro i limiti che aveva ai tempi del Mandato Britannico (ossia gli attuali Israele + Giordania + Territori dell’Autonomia Palestinese + Gaza, n.d.r), è un’indivisibile unità territoriale.»
Insomma, la “Palestina” rinasce, allo scopo di eliminare Israele, lo stato degli Ebrei. Ma agli occhi dell’Italiano Medio la sua rinascita appare come una lotta di poveri contro ricchi, invertendo, per chissà quale mistero, il ruolo dei due attori. Non sono ricchi i latifondisti arabi, NO. Sono ricchi gli ebrei, anche quelli più sventurati!
È ricca la gente che arriva su carrette del mare per ricongiungersi ai propri connazionali, sfuggendo a un’Europa che li ha perseguitati per secoli, tenuti ai margini, messi al rogo, infornati ad Auschwitz.
È ricca la gente che, dopo millenni trascorsi nei paesi del Nord Africa, è costretta a lasciare da un giorno all’altro tutto, per sfuggire all’odio fomentato dalla propaganda.
È ricca la gente vestita alla men peggio che, senza casa e senza nulla, fonda comunità basate su principi socialisti e prende la zappa in mano per dissodare terra rimasta incolta per secoli in mano a latifondisti egiziani o siriani, riscattata a peso d’oro, pagandola a quegli stessi padroni che con quei soldi pensavano alle armi da comprare per riprendersi tutto.
È ricca quella gente. Ed è davvero molto ricca: ricca di fame, ricca di miseria, ma soprattutto ricca di speranza, ricca di inventiva, ricca di spiritualità, ricca di senso pratico, ricca della propria cultura pluri-millenaria e di tutte le culture con cui si è confrontata...
Mentre è povera la “Palestina”. E lo è soprattutto nell’immaginario dell’Italiano Medio: è come una sorta di Sierra Maestra mediorientale, in cui il prode Arafat, presentato come un Guevara, combatte contro l’arroganza degli israeliani, ricchi e prepotenti, paragonabili agli yankee e perfino ai boeri razzisti del Sud Africa!
La “Palestina” di Arafat l’egiziano, il pupillo di Muhammad Amīn al-Husaynī, alleato di Hitler e fondatore della Legione Araba, quell’esercito di criminali che marciavano al passo dell’oca sulla terra degli Ebrei e che intendeva attuare la Soluzione Finale anche lì!
“Palestina”. Una lotta di liberazione per l’Italiano Medio. In realtà, uno sporco gioco degli Inglesi prima, dei Russi e degli Americani poi, come ci raccontano David Horowitz e Guy Millière in Comment le peuple palestinien fut inventé, libro non ancora tradotto in Italiano e di cui vi propongo alcuni passi.
Speriamo di vederlo nelle nostre librerie al più presto.

Fulvio Del Deo

(dal libro: Comment le peuple palestinien fut inventé, di David Horowitz, Guy Millière)

(...) Fu, nota Ion Mihai Pacepa, ex-capo della Securitate rumena, nel suo libro “The Kremlin Legacy“, in un giorno del 1964, «fummo convocati a una riunione congiunta del KGB a Mosca». Il soggetto della riunione era di estrema importanza: «si trattava di ridefinire la lotta contro Israele, considerato un alleato dell’Occidente nel quadro della guerra fredda che conducevamo». La guerra araba per la distruzione di Israele non era suscettibile di attirare molti sostegni nei «movimenti per la pace», satelliti de l’Unione Sovietica. Dovevamo ridefinirla. Era l’epoca delle lotte di liberazione nazionali. Fu deciso che sarebbe stata una lotta di liberazione nazionale: quella del “POPOLO PALESTINESE”. L’organizzazione si sarebbe chiamata OLP: Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Alla riunione parteciparono membri dei servizi siriani e egiziani. I Siriani proposero il loro uomo, come futuro leader del movimento: Ahmed Shukairy¹, e fu accettato. Gli Egiziani avevano il loro candidato: Yasser Arafat. Quando fu chiaro che Shukairy non sarebbe stato all’altezza della situazione, fu deciso di rimpiazzarlo con Arafat, e, spiega Pacepa, costui fu “fabbricato”: abbigliamento da Che Guevara medio-orientale, barba di tre giorni da avventuriero. «Dovevamo sedurre i nostri militanti e i nostri contatti in Europa».
Quaranta e passa anni dopo, l’opera di seduzione sembra aver avuto un netto successo. Non solo la «lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese» appare giusta e legittima, ma nessuno mette più in discussione l’esistenza del “popolo palestinese”. nessuno osa dire che questo popolo fu inventato a fini di propaganda: nessuno sembra voler ricordarsene. Nessuno sembra volersi ricordare che la creazione del “popolo palestinese” fu un utile strumento della lotta dell’Unione Sovietica contro l’Occidente, durante la Guerra fredda.
E infatti: la lotta di liberazione nazionale inventata dal KGB ha fatto la sua strada: ci sono stati gli accordi di Oslo e la creazione dell’autorità palestinese in Giudea Samaria, c’è stata l’emergenza di Hamas poi, dopo la caduta dell’URSS, l’inserimento di una dimensione islamista nel conflitto. C’è stato, soprattutto, con Oslo, il riconoscimento da parte del governo israeliano dell’invenzione del KGB, il “popolo palestinese”, invenzione che è sfociata nell’idea dei “territori palestinesi” “occupati” da Israele.
Noi siamo oggi in uno dei momenti nei quali la parte islamista che tiene Gaza e la parte derivata dall’OLP che tiene Ramallah, cercano di ottenere un riconoscimento internazionale all’ONU, avendolo già ottenuto all’Unesco, con il sostegno di paesi come la Francia.

Fonte: Il blog di Barbara.