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mercoledì 28 settembre 2016

La storia degli insediamenti ebraici nel West Bank


Per "coloni" si intendono gli ebrei israeliani che correntemente vivono nei territori contesti del "West Bank". Come sono arrivati qui, e cosa la loro presenza comporta per il conflitto arabo-israeliano? La questione è più retorica che bellica, sebbene le armi utilizzate certo non manchino. Ambo le parti avanzano rivendicazioni sul territorio in questione, proponendo ora le norme del diritto internazionale, ora i vincoli storici, ora la successione ereditaria.
La retorica dei coloni si basa sul ritorno, e non sulla conquista. I coloni israeliani rivendicano il ritorno alle terre dove in precedenza abitavano i loro avi. Questo, secondo la retorica palestinese, impedisce la formazione di uno stato: sarebbe impossibile pervenirvi, senza rimuovere una comunità di oltre 400.000 persone.
Ma come siamo arrivati a questo punto? la trascrizione del video che proponiamo, propone la storia degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria.


Eccomi alla guida della mia auto, in quello che credo sia il luogo più strano al mondo. Ho appena lasciato Israele, per entrare nel West Bank. Se osservaste una cartina, notereste un groviglio di città e villaggi palestinesi, in verde; e di insediamenti israeliani, in blue.

sabato 22 settembre 2012

Perché i palestinesi evitano il processo di pace?

di Robin Shepherd*

Forse l'osservazione più famosa attribuita ad un funzionario israeliano a proposito della indisponibilità palestinese a lavorare ad una pace duratura, risale al 1973, quando l'allora ministro degli Esteri di Gerusalemme affermò: «i palestinesi non perdono mai l'opportunità di perdere una opportunità». Allora come oggi, l'affermazione rasenta l'ovvietà. Avendo respinto il piano di partizione (del mandato britannico palestinese, NdT) delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che invece fu accettato dagli ebrei, e che avrebbe dato vita a due stati - uno arabo e uno israeliano - i palestinesi hanno confidato nel cacciare gli israeliani attraverso la guerriglia, il terrorismo vero e proprio e le guerre di volta in volta scatenate dagli stati arabi confinanti.
Il negoziatore capo dell'Autorità Palestinese Saeb Erekat l'altro giorno ha fornito dettagli circa una proposta di riconoscimento di uno stato palestinese, da presentare all'assemblea generale dell'ONU alla fine di questo mese, tornando alle linee del 1967 (precedenti la Guerra dei Sei Giorni del 5-10 giugno 1967, NdT). Secondo il Jerusalem Post, egli sostiene che «nessuno parla di cancellare il processo di pace».

Che delusione. Gli israeliani sono giustamente timorosi di tutto ciò che provenga dall'assemblea generale dell'ONU, o da altre istituzioni ad essa affiliate (come l'UNESCO, per esempio, NdT). La convinzione è che esse accettano allegramente le condizioni per negoziati di pace imposte da stati massicciamente rappresentati e che sognano la distruzione di Israele.
In secondo luogo, le linee del 1967 sono indifendibili. E non si tratta nemmeno di confini: si tratta appunto di linee, armistiziali, su cui i soldati degli eserciti opposti si sono ritrovati ad un certo punto della Guerra di Indipendenza del 1948 (scatenata dagli stati arabi confinanti), quando fu accolto l'invito di cessare almeno provvisoriamente le ostilità.
Anche nell'ambito dello scambio di terre che accompagnerebbe nel mondo reale una soluzione in due stati, il concetto che le linee del 1967, anziché confini realmente difendibili, possano rappresentare la piattaforma di un negoziato di pace, è semplicemente ridicolo.

Ma torniamo al punto di partenza. Perché i palestinesi sono così intenti a coinvolgere qualcun'altro nel fissare i termini di un processo di pace in loro vece? dopotutto, Israele sta ripetutamente lanciando inviti al tavolo delle trattative, senza alcuna pre-condizione. Perché questo tavolo è accuratamente evitato dai palestinesi?
A prescindere da quanto sostiene Erekat, i palestinesi comprendono benissimo che gli sforzi di fissare i termini di un negoziato mediante le Nazioni Unite rende le discussioni piuttosto improbabili, se non impossibile. Per cui: cos'hanno in mente?
Tristemente, tutto si riconduce alla vecchia tecnica di respingere sempre, che i palestinesi hanno adottato sin da quando rifiutarono il piano di partizione dell'ONU del 1947. Quando c'è un'opportunità da cogliere, essi sono risoluti nel respingerla. Uno sconcertato Bill Clinton apprese questo comportamento nel 2000, quando al termine di estenuanti trattative di pace che avrebbero portato a due stati i quali avrebbero finalmente vissuto fianco a fianco; Yasser Arafat d'un tratto fece saltare il tavolo e tornò trionfante fra la sua gente. Ancora oggi ci si chiede perché sia stata respinta quella storica opportunità.

* Fonte: The Commentator

lunedì 28 maggio 2012

Una soluzione per i profughi palestinesi

E' in discussione al Senato americano un disegno di legge la cui approvazione definitiva farebbe cambiare sensibilmente la questione mediorientale e i rapporti fra mondo arabo e Israele.
Come è noto, alla fine del 1947 le Nazioni Unite ripartirono l'ex protettorato britannico palestinese - ricevuto in consegna dopo la dissoluzione dell'impero ottomano di inizio anni '20 - in due stati: uno arabo, e uno ebraico. Gli ebrei accettarono la partizione, e l'anno successivo proclamarono lo stato di Israele. Gli arabi non accettarono la decisione storica, e convinsero gli arabi che vivevano nel neonato stato a riparare negli stati confinanti, prima di scatenare un conflitto che si risolse l'anno successivo in una bruciante sconfitta.
Gli arabi che ripararono in Egitto, in Libano, in Siria, in Giordania e in Iraq furono sistemati in campi profughi nei quali hanno vissuto per lunghi decenni. Senza diritti, senza cittadinanza - unico caso al mondo - senza possibilità di integrarsi nella società, di frequentarne le scuole, di praticarne le istituzioni. Cittadini di serie B a tutti gli effetti. I 6-700 mila arabi del 1948 sono diventati milioni. Così tanti, che l'ONU ha previsto una apposita agenzia: l'UNRWA. Un gigante burocratico che amministra fondi e li versa ai profighi palestinesi. Caso eclatante: a differenza dei profughi di tutti gli altri stati al mondo, i figli e i figli dei figli hanno conservato lo status di rifugiato.

Ma le più nobili intenzioni ad un certo punto si scontrano con la dura realtà. Mantenere 5 milioni di palestinesi costa. Un'impresa impossibile. I figli dei figli a loro volta si riproducono, e il conto delle bocche da sfamare e degli impiegati necessario per tenere il conto si moltiplica a perdita d'occhio. E' per questo che un senatore dell'Illinois ha presentato una proposta di legge che distingue fra gli arabi che lasciarono Israele nel 1946-48, e tutti coloro che sono nati successivamente. Il consistente contributo americano all'UNRWA (più di un miliardo di dollari) sarebbe da prevedersi soltanto per i primi. Ma in questo caso, l'investimento umanitario si ridimensionerebbe sensibilmente: a 30 mila dollari annui. I discendenti di chi si fece convincere dagli stati arabi belligeranti dovrebbero convincere gli stati ospitanti - come la Giordania, dove un terzo della popolazione vanta lo status di rifugiato - a concedere finalmente la cittadinanza a tutti gli effetti. Non a caso, Amman sta premendo sul Senato americano, in compagnia del Dipartimento di Stato, affinché la legge non venga promulgata.

Si tratterebbe di una svolta epocale. I profughi palestinesi non potrebbero essere più impiegati come arma nei confronti di Israele. Mancando un importante fonte di reddito, essi sarebbero indotti ad integrarsi negli stati arabi che da decenni ne ospitano la discendenza, senza riconoscere loro cittadinanza, a differenza di quanto si fa in ogni stato al mondo nei confronti dei figli degli emigranti. Il cosiddetto "diritto al ritorno", ancora oggi sbandierato dalla dirigenza palestinese come pre-condizione all'instaurazione di negoziati bilaterali, cesserebbe d'un tratto, e finalmente si potrebbe discutere di mutuo e pieno riconoscimento, di confini e - perché no? - di collaborazione economica e sociale.
Auguriamoci che la proposta di legge conosca una rapida approvazione. Dopo decenni di umiliazioni - l'Autorità Palestinese ha chiarito in passato che i profughi ospitati nei suoi campi (come quello di Betlemme, mostrato nella foto) non diventeranno mai suoi cittadini, nemmeno quando un giorno nascerà lo stato di Palestina, accanto a quello di Israele - di privazioni, di rinunce, forse il prossimo futuro farà assistere alla cessazione di questa vergognosa strumentalizzazione.

sabato 17 settembre 2011

I palestinesi non saranno mai cittadini di Palestina

L'ambasciatore dell'OLP in Libano afferma che i "profughi" palestinesi (i figli, nipoti e pronipoti degli arabi che furono convinti dagli stati confinanti a lasciare Israele nel 1948, con la promessa che vi sarebbero rientrare una volta conclusa la guerra che stavano per scatenare) sostiene che non diventeranno MAI cittadini del nuovo stato di Palestina. Anche quelli che attualmente vivono in campi profughi all'interno degli stessi territori palestinesi...



Abdullah Abdullah ha chiarito che la nascita eventuale del nuovo stato di Palestina non muterà affatto la sorte dei circa sei milioni di discendenti di coloro che lasciarono Israele con la promessa che vi sarebbero tornati in tempi brevi per impossessarsi di tutti i beni degli israeliani che avrebbero perso la guerra (così per fortuna non è andata). Essi sono sì palestinesi, ma manterranno lo status di rifugiati, sostanzialmente privi di diritti di ogni sorta. Che siano residenti nei campi in Giordania, in Siria, in Libano, in Egitto; o che si trovino negli stessi territori palestinesi.
A chi non conosce il disprezzo che gli stati arabi confinanti hanno nutrito nei confronti dei palestinesi può sfuggire il motivo di questo diniego. Gli stati arabi insistono nell'assurda pretesa di inserire i discendenti dei palestinesi del 1948 in Israele, contribuendo ad una deflagrazione demografica che ucciderebbe lo stato ebraico; ma si guardano bene dal riconoscere, dopo 63 anni, che ai discendenti sia concessa la possibilità di vivere nel proprio stato. Come d'altro canto la stessa ONU concesse loro nel 1947, con la risoluzione che divideva il mandato britannico in Palestina in due stati sovrani.

Questo purtroppo conferma ancora una volta a cosa servono i profughi palestinesi, da decenni ammassati in luridi campi ai confini con Israele: sono carne da cannone, armi umane nelle mani di chi non si è ancora stancato di combattere una sporca guerra. Se divenissero cittadini, non potrebbero più essere utilizzati come strumento di pressione e di ostilità nei confronti dello stato israeliano.
Il conflitto israelo-palestinese non terminerà con il probabile voto all'assemblea generale alle Nazioni Unite. Anzi, probabilmente conoscerà una nuova intensificazione.