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mercoledì 6 novembre 2013

Israele sta per diventare esportatore di energia

Il boom della produzione di gas naturale da rocce scistose (shale gas) sta favorendo una insperata primavera dell'industria manifatturiera americana. Il fenomeno della delocalizzazione sta rapidamente rientrando, e diverse grandi compagnie stanno ricollocando la produzione all'interno dei confini nazionali; incoraggiate da un costo dell'energia in caduta libera. Basti pensare che un milione di BTU (British Thermal Unit, l'unità di misura del gas naturale) costa 9 dollari e mezzo nel Regno Unito, 11 dollari in Germania e quasi 17 dollari in Giappone. In USA, 1 mBTU costa meno di 3 dollari e mezzo. Non sorprende che diverse abitazioni di nuova costruzione sono alimentate a gas naturale: una fonte di energia relativamente pulita, e di cui gli USA disporranno in crescenti quantità.

Ma c'è un altro stato al mondo, che sta lavorando alacremente alla propria indipendenza energetica. Per porre fine alle ostilità, Israele ha riconsegnato la penisola del Sinai, letteralmente galleggiante sul petrolio, all'Egitto del 1978, in cambio della sottoscrizione di un trattato di pace che dura tuttora. Lo stato ebraico è completamente dipendente dall'estero per l'approvvigionamento energetico, e non è un mistero che i ripetuti attentati terroristici agli oleodotti miravano proprio a minarne l'attività manifatturiera.
Ma come riporta oggi il Financial Times, Gerusalemme sta lavorando per diventare in tempi brevi addirittura un paese esportatore di energia. Al largo delle coste di Ashdod, nell'Israele meridionale, è in funzione la piattaforma di Tamar, frutto della joint venture fra un'azienda israeliana e la texana Noble Energy. Il progetto, del valore di 3.5 miliardi di dollari, ha iniziato a produrre gas da marzo, e contribuirà quest'anno al PIL israeliano per un punto percentuale pieno. Il gas destinato all'esportazione, ottenuto di recente il consenso dalla Corte Suprema  in tal senso, dovrebbe invece provenire dal giacimento "Levietano", situato una trentina di chilometri ad ovest di Tamar, e dalla capacità stimata in 19000 miliardi di piedi cubici.
Le destinazioni più immediata sarebbero la Turchia, la Grecia, la Giordania o anche l'Egitto; paesi che così beneficierebbero di drastiche riduzioni dell'attuale bolletta energetica. È una situazione "win-win", per usare le parole del responsabile operativo della Delek Drillings, l'azienda israeliana responsabile della ricerca e dell'estrazione. Malgrado i rapporti ufficiali siano quantomeno accidentati, le autorità turche si sono dichiarate molto interessate al gas israeliano. Ma al di là di aspetti commerciali ed economici, la prossima piena autosufficienza energetica del piccolo stato ebraico si riverbererà su tutti i rapporti con gli stati arabi confinanti, ai quali riuscirà meno facile il tentativo di mettere in ginocchio Gerusalemme strozzando le forniture di petrolio. Gli stessi Stati Uniti, che si stanno defilando maldestramente dal Medio Oriente, vedrebbero ridurre il loro attuale potere di condizionamento nei confronti di Israele.

lunedì 12 settembre 2011

Cosa si nasconde dietro i toni forti di Erdogan

Ankara sta per mandare tre navi da guerra nel Mediterraneo Orientale "per proteggere future spedizioni a Gaza, e per assicurare la navigazione in acque internazionali alle navi turche".
Aumenta dunque la retorica del governo di Erdogan. Insoddisfatto della risposta dell'ONU, che ha dichiarato legale e legittimo il blocco navale israeliano al largo delle coste di Gaza, con cui si impedì l'anno scorso l'attracco della Freedom Flottilla; non pago del rincrescimento di Gerusalemme, non accompagnato da scuse formali e consistenti indennizzi per le famiglie dei militanti turchi rimasti uccisi nello scontro con l'IDF; Erdogan aumenta ulteriormente i toni e minaccia di inviare presto tre navi da guerra nel Mediterraneo Orientale. Ufficialmente per proteggere future (eventuali) missioni umanitarie a Gaza, malgrado il rapporto Palmer abbia precisato che non vi sia alcuna emergenza umanitaria. Ed inoltre, per proteggere la navigazione delle navi turche "nelle acque internazionali".



Adesso tutto si chiarisce. La Turchia vuole mettere le mani su fonti di energia su cui non può vantare alcun diritto!
Il fatto è che alla fine del 2010 è stato rinvenuto un enorme giacimento di gas naturale proprio nel Mediterraneo Orientale; in parte in acque territoriali israeliane, in parte in acque internazionali, in parte in acque territoriali cipriote. Si tratta di uno dei più grandi rinvenimenti off-shore dell'ultimo decennio. La Turchia non può vantare alcuna aspirazione a questi giacimenti. Se non fosse che da quasi quarant'anni occupa la parte nord-orientale di Cipro, stato membro dell'Unione Europea, in spregio al diritto internazionale. La "Repubblica Turca di Cipro del Nord" non è riconosciuta da alcuno stato al mondo, eccezion fatta per la stessa Turchia. Che pertanto in ragione di questa occupazione vanta crediti e diritti nei confronti dei giacimenti di gas rinvenuti in parte al largo delle coste cipriote.
Il giacimento rappresenta un valore potenziale di decine di miliardi di dollari, e farebbe di Israele - per la parte di sua competenza - un esportatore netto di energia, potendosi così affrancare dalle costose e ora rischiose importazioni dall'estero. Per inciso questa energia - pulita - farebbe comodo anche all'Italia, costretta ad importare petrolio da Iran e Siria per l'embargo ONU sul greggio libico.
Questo spiega l'ulteriore prova retorica nazionalista del governo di Erdogan, e chiarisce la posizione ufficiale del governo di Gerusalemme, che su questa questione non transige, al punto da dichiarare che è pronta sin d'ora a difendere con tutti i mezzi i giacimenti in questione.
Ci si chiede quale sarà la posizione degli Stati Uniti nel momento in cui Israele - suo alleato storico - dovesse incrociarsi militarmente con la Turchia, membro della NATO. Erdogan sarà prossimamente in Egitto per una visita che verosimilmente servirà a stringere ulteriormente i legami con il regime provvisorio del Cairo che presto cederà il testimone ad un governo influenzato dall'integralismo dei Fratelli Musulmani. L'Egitto è in pace con Israele ufficialmente dal 1979, dopo aver sottoscritto il Trattato di pace a Camp David.