giovedì 26 aprile 2012

Buon compleanno!


Allevare salmoni «norvegesi» nel deserto, riparare tubature degli acquedotti dall’interno per bloccare lo sperpero di acqua per causa di tubi perforati o mal saldati, inventare nuovi tipi di chip, attirare dall’estero laboratori di ricerca di società come Google, Ebay, Microsoft, Cisco, sono alcuni dei successi menzionati nel best seller di due giornalisti (Dan Senor & Saul Singer: Start-up Nation 2009) per spiegare come un Paese grande come la Lombardia in guerra da 64 anni e senza risorse naturali è riuscito a aumentare di 10 volte la popolazione (da 600 mila a 7,5 milioni) le esportazioni di 13 mila volte (da 6 milioni a 8 miliardi di dollari) piazzandosi in termini di Pil fra Spagna e Italia.
Il segreto di queste scommesse vincenti con continue sfide esistenziali sta nella combinazione di tre atteggiamenti caratteriali: sprezzo dell’autorità, passione del rischio, visione dell’avversità come fonte di energia. Non rende Israele particolarmente simpatico a molti. Ma pone il più delegittimato Paese dell’Onu al 22 posto nella scala dei «migliori Paesi del mondo» (secondo Newsweek), al quindicesimo per dinamismo, al primo per la salute pubblica con l’88% di soddisfazione della sua popolazione. È il solo ad aver superato l’attuale crisi aumentando il suo rating; l’unico che inizia il ventunesimo secolo con più alberi e verde che all’inizio del ventesimo, che ha risolto i problemi di irrigazione con la desalinizzazione e l’invenzione dell’irrigazione a gocce.
Detiene il record mondiale della produzione del latte per mucca, esporta le migliori sale operatorie assieme ad aerei senza piloti, vanta la più alta percentuale di sopravvivenza dal cancro con medicine innovatrici contro l’Alzheimer, il Parkinson e la sclerosi multipla, una pillola rivoluzionaria per la diagnosi del sistema digestivo e il primo computer biologico. Si potrebbe allungare la lista ma la formula del successo che fa tanto imbestialire i suoi nemici, arabi e non arabi, non si è autocreata. Vi hanno contribuito leader come Ben Gurion che ordinava, quando un esperto affermava che un compito era irrealizzabile, di cambiare l’esperto; come Shimon Peres che negli anni Ottanta ha ridotto l’inflazione (dal 400% all’attuale 2.3%), come Netanyahu che negli anni Novanta ha liberalizzato l’economia abbassando la disoccupazione dal 12 al 4.7%, come il governatore della banca centrale Stanley Fisher che ha accumulato 78 miliardi di dollari di riserve stabilizzando la moneta. Vi hanno contribuito i 20 collegi universitari, accademie, con 3 catalogate fra le prime 50 del mondo. In ultimo l’apporto di un milione di immigranti dalla Russia con educazione superiore per il 50% e la concentrazione in patria del più alto numero al mondo di scienziati e ingegneri per 10.000 abitanti (produttori del più alto numero di brevetti dopo USA e Canada).
Tuttavia un catalizzatore dello sviluppo é stato l’esercito. Conscio della propria inferiorità quantitativa nei confronti del nemico arabo ha puntato sulla qualità umana facendo proprio il motto di Einstein: l’immaginazione è più importante della conoscenza. Chi esaminasse la lista dei fondatori, direttori, amministratori delle società start-up (ve ne sono oltre 4.000 con un numero di quelle registrate alla borsa Nasdaq di New York che è superiore a quello europeo) noterebbe che la grande maggioranza di questi innovatori esce dalle unità scientifiche, tecnologiche e di intelligence delle forze armate.
Il «miracolo» israeliano ha le sue ombre: divario di ricchezze e stato sociale, concentrazione del potere finanziario nelle mani di 18 «famiglie allargate», basso livello delle scuole medie, un milione di bambini a livello di povertà. Problemi a cui la scoperta di giacimenti di gas sottomarino dovrebbero portare rimedio entro il 2014 garantendo l’indipendenza energetica del Paese e la creazione di un fondo sovrano dedicato – secondo le promesse con cui Bibi Netanyahu conta di vincere le prossime (2013) elezioni legislative all’educazione, allo sviluppo e alla integrazione sociale.

Vittorio Dan Segre

(Pubblicato su Il Giornale del 26 aprile 2012)

mercoledì 25 aprile 2012

I sette miti sfatati sul Medio Oriente

Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite Ron Prosor ha deliziato la platea smontando minuziosamente alcuni miti sul conflitto israelo-palestinese, che ancora oggi sopravvivono fra una parte della popolazione. Il sito web Arutz Sheva ha riportato questa discussione in sede ONU a beneficio dei lettori. Quello che segue è un estratto, opportunamente tradotto in italiano.

1) «Il conflitto israelo-palestinese è centrale nel Medio Oriente: risolvi questo, e risolverai tutti gli altri conflitti in quest'area». La verità che le guerre in Siria, nello Yemen, in Bahrain e in moltri altri stati del Medio Oriente non hanno assolutamente nulla a che fare con Israele. "E' ovvio che risolvere il conflitto fra israeliani e palestinesi non farà cessare la persecuzione delle minoranze nel mondo arabo, così come la sottomissione delle donne, o le divisioni settarie", argomenta l'ambasciatore Prosor.
2) «A Gaza c'é una crisi umanitaria». Anche il vice presidente della Croce Rossa Internazionale ha riconosciuto che non vi è alcuna crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, dove il PIL è cresciuto del 25% nei primi tre trimestri dello scorso anno. Inoltre, non vi è alcuna merce che non possa entrare a Gaza, eccezion fatta per armi e muniazioni.
3) «Gli insediamenti sono l'ostacolo principale alla pace». Prosor è disponibile a far risparmiare tempo al Consiglio ONU per i Diritti Umani, che ha promosso una indagine sugli insediamenti ebraici nel West Bank: "quando Egitto e Giordania controllavano la Guidea e la Samaria e Gaza, fra il 1948 e il 1967, il mondo arabo non fece nulla, non sollevò un dito, e si guardò bene dall'invocare la creazione di uno stato palestinese. E pretendeva l'annichilimento dello stato israeliano quando non esisteva alcun insediamento nel West Bank o a Gaza".
4) L'ostacolo principale alla pace non sono gli insediamenti ebraici, ma la pretesa araba al ritorno dei discendenti degli arabi che furono convinti a lasciare Israele nel 1948 quando gli stati arabi confinanti scatenarono una guerra contro il neonato stato, perdendola; o il rifiuto dei palestinesi di riconoscere Israele come patria degli ebrei.
5) «Israele sta giudeizzando Gerusalemme». E' una accusa che giunge con 3000 anni di ritardo. E' come accusare la NBA di americanizzare la pallacanestro. Oltretutto, la percentuale di arabi che abitano nella capitale israeliana è cresciuta dal 26% del 1967 al 35% odierno. Altro che "pulizia etnica"!
6) Un mito di cui si parla ben poco, in tutti questi 64 anni di storia moderna dello stato di Israele, riguarda la storia mai discussa degli 850 mila ebrei che furono emarginati, ostracizzati, privati di diritti e alla fine brutalmente espulsi dagli stati arabi in cui nacquero e vissero. Ci sono comunità che vivevano lì da 2500 anni, attive e ben integrate, spazzate via in breve tempo. Le pagine che le Nazioni Unite hanno scritto sui rifugiati palestinesi potrebbero riempire uno stadio di calcio, ma non una sola pagina è stata scritta sui rifugiati ebrei.
7) Il mito più rilevante è quello secondo cui la pace fra israeliani e palestinesi possa essere raggiunta non mediante discussioni bilaterali, ma mediante azioni unilaterali. La storia insegna che pace e negoziati sono imprescindibili: "i palestinesi continuano ad accampare scuse, ponendo pre-condizioni prima di sedersi ad un tavolo assieme ai ministri israeliani. Li si vede dappertutto, tranne che attorno ad un tavolo".

martedì 24 aprile 2012

Scintille fra Abu Mazen e Salam Fayyad

Montano le tensioni fra il presidente dell'Autorità Palestinese (AP) Abu Mazen (nome di guerra di Mahmoud Abbas) e il primo ministro dell'AP Salam Fayyad, il "moderato" di gradimento dell'Occidente. Proprio l'Occidente, che finanzia generosamente e senza porre condizioni il governo di Ramallah in seguito agli accordi di pace di Oslo del 1993 - che prevedevano fra le altre condizioni il pieno riconoscimento dello stato di Israele, e la cessazione della lotta armata - vedono con crescente preoccupazione il tentativo di Abu Mazen di ridimensionare il potere del primo ministro palestinese da parte del successore di Arafat. Le tensioni montano da tempo, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la lettera, contenente le solite pretese impossibili, che Abu Mazen ha fatto recapitare al primo ministro israeliano tramite una delegazione che si è recata a Gerusalemme. Della delegazione avrebbe dovuto fare parte Salam Fayyad, il quale all'ultimo momento si è defilato: «non faccio il postino di Abu Mazen ne' di Al Fatah», avrebbe sbottato Fayyad. Il quale non ha mai apprezzato il gesto unilaterale di Abu Mazen dello scorso settembre, quando il maggiore esponente dell'OLP tentò l'avventura del riconoscimento unilaterale dello stato palestinese, di fatto infrangendo la roadmap sancita ad Oslo. Abu Mazen appare sempre più isolato e nervoso, come evidenzia il modo sempre più brutale con cui viene soffocato il dissenso interno. L'abbraccio mortale con Hamas e la prospettiva di un peraltro improbabile governo unitario da un lato rappresenta il tentativo di perpetrare il potere, dall'altro indebolisce ulteriormente la leadership di Ramallah, comportando il prosciugamento dei finanziamenti internazionali per l'evidente sterzata radicale. Da qui il tentativo di ridimensionare il potere di Fayyad, mettendo direttamente le mani sulle casse dell'AP, di cui è responsabile il primo ministro. Un tentativo che però non vede comprensibilmente d'accordo i finanziatori, che si vanno progressivamente defilando.

Questi diritti umani non contano?

I palestinesi non finiscono mai di stupire; in negativo, purtroppo. Non si è ancora spenta l'eco per la condanna di Peppino Caldarola, il giornalista che ha accusato di antisemitismo Vauro Senesi per le sue vignette diffamatorie ("satiriche", ha concluso il giudice) che raffiguravano l'ebrea Fiamma Nirenstein in modo grottesco, con il naso adunco e un fascio littorio sul petto. Ed ecco che la cronaca ci offre un episodio analogo in Medio Oriente. Hasan Wa’el ‘Abbadi, 23 anni, è stato di recente arrestato dall'Autorità Palestinese per le sue vignette. Il vignettista non è certo tenero con il governo israeliano, e spesso il suo sarcasmo sconfina nell'antisionismo. Ma Abbadi si sente libero di criticare anche la corruzione che dilaga a Ramallah. E una delle sue vignette, che ironizzavano sui traffici dell'entourage di Abu Mazen, non devono essere andati giù all'OLP, che ha disposto l'arresto del giovane palestinese residente a Nablus. Due pesi e due misure. Mentre il Consiglio ONU per i diritti umani dispone una verifica del rispetto dei medesimi da parte del governo di Gerusalemme nei confronti dei palestinesi; il medesimo tace di fronte allo sterminio dei siriani, o alle minacce atomiche di Ahmadinejad, o di fronte alla crescente repressione del dissenso dilagante a Gaza e nel West Bank. L'organizzazione terroristica che governa la Striscia, ha deciso di rendere pubbliche le esecuzioni (per impiccagione) dei cittadini ritenuti a suo insindacabile giudizio responsabili di collaborazionismo con "il nemico" israeliano. Qualche ONG si agita, ma l'opinione pubblica mondiale è tenuta all'oscuro di questa tragedia. Irritazione della stessa Autorità Palestinese, che senza pudore rileva che Hamas non può comminare esecuzioni capitali senza il consenso scritto di Abu Mazen.

lunedì 23 aprile 2012

L'atto d'accusa dei palestinesi


I palestinesi di Abu Mazen accusano i palestinesi di Hamas di requisire la benzina a Gaza per far girare i loro lussuosi macchinoni, lasciando la popolazione al buio e senza energia. L'organizzazione terroristica fa pagare la corrente alla popolazione, ma non paga i fornitori, che hanno lasciato la Striscia al buio. Ma le abitazioni dei gerarchi di Hamas sono ben illuminate, e i conti correnti sono zeppi dei dollari guadagnati con il contrabbando di carburante (venduto a 7-8 dollari per gallone al mercato nero). Significativa l'ammissione finale: «tutte le sofferenze patite nella Strisca di Gaza negli ultimi cinque anni, da quando criminali hanno posto a segno un criminale colpo di stato, è responsabilità nostra, come Autorità Palestinese. Abbiamo commesso un errore, e agito in modo negletto; ma non nei confronti di Gaza, bensì nel mancare di perseguire i criminali che hanno messo a segno il colpo di stato, mediante le istituzioni arabe e internazionali, fino a consegnarli alla giustizia».

sabato 21 aprile 2012

Uno spiraglio di serenità nel futuro della Siria?

L'esperienza tragica dei movimenti passati infelicemente alla storia come "primavera araba" induce alla cautela: i paesi del Nord Africa hanno spazzato via regime tirannici, dispotici, corrotti, ma in discreti rapporti con il mondo occidentale e con Israele; sostituendoli progressivamente con regimi oscurantisti, fondamentalisti, in mano a teocrazie autoproclamatesi, che negano ogni dignità per la donna, per le opposizioni, per chi professa una religione diversa da quella islamica, e che spesso usano parole di fuoco nei confronti dello stato ebraico (passando in queste settimane ai fatti; per il momento, fortunatamente blandi). E' notizia di queste ore che le Nazioni Unite invieranno in Siria 300 osservatori, onde accertare il mantenimento di una fragilissima tregua fra il regime di Bashar Assad e le masse in rivolte. In poco più di un anno la repressione ha fatto diecimila vittime; in gran parte civili. Il desiderio di defenestrare il sanguinario dittatore di Damasco contrasta con la cautela: si teme il peggio, si teme l'instraurazione di un regime ancora più brutale e sanguinario. Non a caso Gerusalemme non ha mai preso posizioni ufficiale sulla rivolta in Siria: uno stato con cui non sono mai stati sottoscritti accordi di pace, dopo gli ultimi conflitti che hanno portato alla conquista provvidenziale delle Alture del Golan, dalle quali partivano gli attacchi siriani nei confronti della popolazione israeliana. Ma un'intervista rilasciata da Nofal Al-Dalawibi farebbe ben sperare. Il figlio dell'ex primo ministro di Damasco, ritenuto da molti il collegamento fra i rivoltosi siriani e l'Occidente, ha dichiarato in un'intervista al Times of Israel il desiderio del popolo siriano di pagare con il bagno di sangue di questi mesi la conquista di una pace duratura con tutti. Incluso lo stato di Israele. Come rileva il ToI, lo stesso fatto che un alto esponente siriano appaia ben disponibile verso un cronista israeliano induce ad un moderato ottimismo: «i siriani sono in sospensione dalla vita politica da oltre 40 anni, e non vogliono altro che pace». Al-Dalawibi ha aggiunto che la popolazione in rivolta non è interessata ad alcun accordo con Assad, definito un "batterio mafioso". Malgrado la tregua, secondo un quotidiano arabo a Londra 75 siriani sono rimasti vittima venerdì degli scontri fra le forze fedeli al regime e l'opposizione. Vani gli inviti alla cessazione delle ostilità da parte dell'inviato dell'ONU Kofi Annan.

venerdì 20 aprile 2012

Mai vendere le case agli ebrei


Il mercato immobiliare, si sa, è stagnante. Non si fanno più i buoni affari di una volta. Difficile vendere, specie in aree poco commerciali, come i teatri di scontri etnici o religiosi. Può capitare che un soggetto possieda una abitazione, malauguratamente nei pressi della Grotta dei Patriarchi a Hebron, nel West Bank. Questo soggetto esiste, e si chiama Muhammad Abu Shahala, è palestinese e ha appena venduto la sua abitazione. Ad un ebreo. L'ha confessato dopo tortura.
Per questo, è stato condannato alla pena di morte dall'Autorità Palestinese, secondo la quale vendere case agli ebrei è reato punibile con la pena capitale. Il malcapitato arabo non disponeva infatti di specifica autorizzazione.
Se qualcuno pensa che sia aberrante e barbarico che in qualunque posto del mondo sia punito con la morte la vendita di una proprietà ad un ebreo, sta errando per difetto.

giovedì 19 aprile 2012

In Danimarca la polizia non va per il sottile...


...ed è per questo che i militanti vanno a manifestare all'estero. E' il caso del giovane e bel danese, filopalestinese - tutti i filopalestinesi sono giovani e belli - che non avendo altro da fare, l'altro giorno si è imbarcato in un aereo ed è riuscito a raggiungere Tel Aviv, da dove si è diretto verso la Valle del Giordano assieme ai suoi compari dell'ISM, organizzazione terroristica e fiancheggiatrice di Hamas, e specializzata in azioni armate di provocazione.
Una di queste missioni ha bloccato l'autostrada che corre lungo il confine israeliano, e che collega nord e sud del paese. Immediato l'intervento dell'esercito, che si è confrontato per due ora con i facinorosi. Fra questi il bel danese, meritevole di aver spezzato le dita del tenente colonnello Shalom Eisner; il quale aveva l'ulteriore colpa di essere un credente e praticante.
I media si sono occupati dell'evento. Lo stato maggiore dell'IDF ha sospeso dall'incarico - giustamente - il militare, il quale nella circostanza ha perso il controllo, pur dopo due ore di provocazioni. Toccanti le immagini distribuite, eloquenti quelle non distribuite. Ad ogni modo, il giorno dopo il bel danese si presentava con il volto tumefatto, come si può apprezzare in alto. Poverino.
Qui in basso, invece, vediamo come la polizia danese tratta - con i guanti bianchi - i manifestanti. Bisognerebbe prendere spunto...

Hamas ha deluso i palestinesi


Bizzarro. Mentre nel West Bank Abu Mazen si guarda bene dall'indire nuove elezioni (gli organi elettivi sono scaduti da tempo) nel timore di perderle a favore dei rivali estremisti di Hamas; nella Striscia di Gaza l'organizzazione terroristica teme un epilogo simile.
Dopo lo sgombero ordinato ad agosto 2005 dall'allora premier israeliano Ariel Sharon, a Gaza l'anno successivo si sono tenute libere elezioni, che hanno visto l'affermazione di Hamas, in coabitazione con i rivali di Al Fatah (nessuno dei due partiti ha raggiunto la maggioranza assoluta). Dopo un sanguinoso colpo di stato nel 2007, l'organizzazione ritenuta terroristica dall'Unione Europea, dagli Stati Uniti, da Israele, Giappone, Canada, Australia e altri stati ha preso il controllo della Striscia. E' tempo di primi bilanci. Sono tutt'altro che lusinghieri.
Secondo un recente sondaggio, se si tenessero oggi elezioni nella Striscia di Gaza, Hamas le perderebbe. La decisione di abbandonare la sede di Damasco dopo la macellazione dei profughi palestinesi da parte di Assad non ha giovato alle sorti del movimento islamico, che ha perso sempre più popolarità presso la popolazione locale. Che ritiene gli uomini di Hamas, politici, come tutti i politici del mondo, dediti al loro potere e alle corti che lo circondano, senza alcun interesse verso la folla. Il partito al potere da cinque anni a Gaza ha dispensato lavoro: oltre 40 mila palestinesi sono stati assunti nella pubblica amministrazione; ma perlopiù, vicino al regime e dopo prova di assoluta dedizione all'islam mediante assidua frequentazione delle moschee, dove si pratica l'indottrinamento e si fomenta l'odio verso gli israeliani. Il resto del popolo, gran parte di esso, fa la fame, mentre osserva i gerarchi di Hamas arricchirsi mediante il contrabbando di materie prime - carburante, specialmente - attraverso i tunnel che solcano il confine con l'Egitto, e mediante il reimpiego del denaro raccolto in lussuose automobili e attività commerciali. Il petrolio di provenienza egiziana - Il Cairo sovvenziona i carburanti, vendendolo ad un prezzo più basso di quello internazionale - arriva in parte a Gaza, ma sul mercato nero, ed è venduto a circa 7 dollari per gallone: molto meno del costo del gasolio che Israele sarebbe disposto a vendere, a quotazioni internazionali, mediante i valici di Eretz e Kerem Shalom, dove però Hamas non potrebbe fare la "cresta".
Il malcontento cresce, Hamas bada ai propri affari e non si cura più della "causa" (palestinese). Lo stato di polizia che è stato instaurato impedisce ogni manifestazione, nel timore che venga evidenziato il distacco in termini di consenso popolare. Quel popolo che cinque anni fa votò Hamas per disprezzo nei confronti della corruzione del Fatah di Yasser Arafat, e ora vede gli stessi tratti corrotti in quella Hamas che nel 2006 promise cambiamento e giustizia, e ora ostenta cupidigia, brama di potere e di denaro, e disinteresse per le sorti della popolazione.

Per qualcuno il macellaio Assad è un galantuomo...


Il redivivo Assange ha intervistato lo sceicco Nasrallah, guida spirituale (e non solo) di Hezbollah, il "partito di Dio" di ispirazione sciita, diretta emanazione del regime iraniano in Libano. Hezbollah è responsabile dell'omicidio di Rafik Hariri, primo ministro libanese fino all'attentato del 14 febbraio 2005. A Rafik è succeduto il figlio Saad, durante il cui governo l'ONU ha istituita una commissione (il Tribunale Speciale per il Libano), presieduta dal nostro Antonio Cassese, che ha accertato le responsabilità dell'organizzazione terroristica islamica localizzata nel sud del Libano, e che la missione delle Nazioni Unite "UNIFIL" avrebbe dovuto disarmare e disperdere. Saad Hariri ha subito le forti pressioni di Hezbollah, che naturalmente osteggiava i risultati dell'inchiesta del TSL, e tanto più si rifiutava di riconoscerne le risultanze e di consegnare i propri uomini alla giustizia. Al punto tale da aver costretto il governo alle dimissioni, onde evitare una nuova, sanguinosa guerra civile. Il nuovo Esecutivo di Beirut vede ora gli uomini di Nasrallah sulle poltrone del governo libanese.
Questa premessa per identificare quale specie di canaglia abbia intervistato l'ex fondatore di Wikileaks. E' una delusione per chi ha festeggiato l'ispiratore della rivelazione di "scomodi segreti" di stato, rilevare l'accondiscendenza con cui Assange ha assistito alle dichiarazioni di Nasrallah. Particolarmente oltraggiosa l'intervista concessa al canale Russia Times dal minuto 1'17" in poi: il regime di Assad, il macellaio di Damasco, autore dell'uccisione di oltre 10 mila civili in poco più di un anno, sarebbe un regime di "resistenza". Pur avendo massacrato un numero considerevole di palestinesi "ospitati" nei campi profughi - al punto da aver provocato l'abbandono indignato di Hamas, che a Damasco aveva sede ufficiale, avrebbe supportato la "resistenza palestinese". E vanta l'ostinazione di Assad, che non avrebbe fatto alcuna concessione, malgrado le pressioni degli americani e degli israeliani (aggiungo io: di tutto il mondo civile, disgustato delle stragi compiute in questi luridi 13 mesi).
Se questo regime (di Assad, NdR) ha fornito "un eccellente servigio alla causa e al popolo palestinese", come mai Hamas è scappata da Damasco e ha rotto le relazioni con l'Iran, che finanzia e arma Assad? Che ha da dire lo sceicco delle migliaia di civili rimasti sull'asfalto, delle torture inflitte ai prigionieri dell'esercito siriano, delle persecuzioni persino negli ospedali, del mancato rispetto del "piano di pace" concordato con Kofi Annan, inviato dell'ONU?

martedì 17 aprile 2012

I palestinesi espiantano organi e li vendono all'Egitto

Naturalmente questa notizia... non farà notizia, poiché non coinvolge gli ebrei e la favola secondo cui l'esercito isrealiano farebbe la guerra ai palestinesi per ottenerne gli organi, e naturalmente commercializzarli, attaccati come sono al dio denaro, essendo dotati notoriamente di naso adunco e tutte le altre favolette che servono per mandare a dormire tranquilli i bambini cristiani. Però merita di essere raccontanta, non foss'altro che per l'ondata di indignazione che sicuramente (...) scatenerà fra le ONG, le associazioni pacifiste, le flottiglie che salperanno per salvare perlomeno le anime dei corpi profanati.

Una fonte non sospettabile di partigianeria come Palestine Press (un sentito ringraziamento per l'opera di traduzione di Challah Hu Akbar) rivela l'esistenza a Gaza di una banda di medici e paramedici specializzata nel riesumare corpi, sezionarli e ricavarne organi da consegnare ad intermediari, appartenenti ad Hamas, che nottetempo fanno passare questo "materiale" per i famosi tunnel scavati al confine fra la Striscia e l'Egitto, ricavandone un lucruso profitto.
Le immagini, raccapriccianti - sconsigliate a chi non ha lo stomaco forte - rivelano il rinvenimento di resti, commercialmente di scarso valore, di corpi ritrovati nei pressi di un ospedale nella Striscia di Gaza.
Naturalmente si potrà obiettare che è la politica del governo di Gerusalemme, che respinge con successo gli attacchi - sia quelli bellici, che quelli propagandistici - a costringere Hamas ad aumentare la posta, finanziandosi con metodi "poco ortodossi". Come quello di lasciare al buio la popolazione pur di non importare il petrolio da Israele, preferendone la provenienza egiziana, sulla quale può agevolmente imporre una lucrosa cresta.
Pacifinti, adesso potete cessare di voltarvi dall'altro lato...

lunedì 16 aprile 2012

Le ONG sono benvenute. Purché antisioniste


Il ministero dell'Interno dell'Autorità Palestinese ha disposto la chiusura di una organizzazione non governativa attiva nei diritti umani. Le attività di questo ONG sarebbero state ritenute "non in linea con gli interessi del popolo palestinese", cita un'agenzia di stampa palestinese di stanza a Betlemme.
Insomma, le ONG sono le benvenute nei territori palestinesi. E sono liberissime di porre in essere iniziative velleitarie e poco credibili come la recente Flytilla - che, al pari della Marcia Globale su Gerusalemme, si è rivelata un flop clamoroso. Purché gettino fango sullo stato israeliano, non importa se impiegando pratiche illecite o sollevando questioni false, distorte e menzognere.
Ma se qualcuno ficca il naso negli affari interni dell'Autorità Palestinese, mettendone in luce un livello di corruzione che fa sorridere chi ha accusato per lo stesso motivo la gestione dell'OLP di Arafat, o magari il livello di disillusione del popolo palestinese nei confronti della dirigenza di Ramallah; è garbatamente messo alla porta: queste intrusioni negli affari interni non fanno gli interessi del popolo palestinese, dicono loro...

giovedì 12 aprile 2012

Allegria: la primavera araba sbarca in Europa!


Abbiamo inneggiato quasi tutti (tranne qualche deprecabile eccezione) alla primavera araba, all'avvenire radioso per i popoli del Nord Africa e del Medio Oriente raggiunti da questa nuova stagione.
Adesso anche noi, poveri europei, potremo gioirne. Per il momento soltanto in Germania - sempre avanti rispetto al resto d'Europa! - i musulmani salafiti (quelli che comandano in Egitto, assieme ai Fratelli Musulmani, e che sgozzano le persone nella Striscia di Gaza, lanciando qualche missile di tanto in tanto in Israele giusto per passare il tempo, e pazienza se nel frattempo la popolazione muore di fame, e dall'altra parte fanno morti e feriti) stanno distribuendo gratuitamente milioni di copie del corano. L'obiettivo è di assicurarsi che in ogni casa ci sia una copia della guida spirituale ma anche legislativa di ogni buon eurarabo.
Sharia in tutta Europa! viva l'oscurantismo! viva la condizione sottomessa della donna! viva la società che non conosce l'omosessualità e le diversità! abbasso la libertà e la democrazia!
P.S.: Censura e biasimo per quel giornalista che, scimmia e maiale - come gli ebrei! - ha denunciato questa iniziativa. Dovrebbe essere lieto: abbiamo finalmente la primavera araba a casa nostra!

La tragedia dell'apartheid in Medio Oriente


Un video che rivela una scomoda quanto ancora ignorata verità: la tragedia dei profughi palestinesi ammassati in luridi campi in Libano, ma anche in Siria, in Egitto e in Giordania. Sono i figli, nipoti e pronipoti degli arabi che furono convinti dalle nazioni confinanti con il neonato stato di Israele nel 1948 ad abbandonare le loro case, dietro promessa pronto ritorno una volta terminata la guerra che di lì a breve gli stati arabi avrebbero scatenato contro Israele. Finì diversamente: lo stato ebraico vinse la guerra del 1948-49, come quella del 1956 (guerra del Sinai), del 1967 (Guerra dei Sei Giorni) e del 1973 (guerra dello Yom Kippur). Gli stati arabi impararono a loro spese che l'aggressione non produceva frutti, e cambiarono strategia, poggiando sulla benevolenza interessata dei media e delle cancellerie occidentali.
Nel frattempo i 500 mila arabi che decisero di lasciare il neonato stato di Israele sono rimasti ammassati nei campi profughi al confine. Senza diritti, senza cittadinanza, senza dignità, senza possibilità di svolgere diversi lavori. Discriminati, marginalizzati, respinti con sdegno dai loro fratelli arabi. Eppure sono nati in questi stati, come lo sono i loro figli e più tardi i figli dei figli: perché non è riconosciuta loro la cittadinanza? E' accettabile che siano impiegati come bomba demografica da scagliare contro Gerusalemme? Fino a quando buona parte dell'Occidente tollererà questo vergognoso stato di apartheid?

P.S.: Notare l'orologio d'oro dell'esponente dell'OLP al minuto 0'52"

Un sentimento divergente


Un diffuso convincimento è che la creazione di due stati confinanti, nel Vicino Oriente, sarebbe la soluzione al secolare conflitto fra ebrei-israeliani e arabi-palestinesi. Lo ha ricordato qualche giorno fa Monti, in visita a Gerusalemme, lo ripetono meccanicamente tutti i policy-maker internazionali: due stati per due popoli. Bella affermazione, di quelle che fanno tanto cool. Chi potrebbe mai affermare il contrario? sarebbe come ascoltare una candidata a miss Italia affermare candidamente che NON desidera la pace nel mondo, o la lotta all'inquinamento, o tanti bei propositi politicamente corretti.
Quando si rimuove la patina di ipocrisia e di conformismo, si fanno purtroppo delle scoperte interessanti. Qualche giorno fa il Palestinian Center for Public Opinion (PCPO) ha realizzato un sondaggio nei territori contesi di Giudea e Samaria, consistito nel proporre agli intervistati due affermazioni che partono dal presupposto che tutti desiderino uno stato palestinese, al fianco di uno stato israeliano; sorvolando sulla triste circostanza secondo cui ancora molti, oggi, dichiarino apertamente di auspicare la distruzione dello stato ebraico, in linea con l'atto costitutivo di Hamas.
Le affermazioni su cui pronunciarsi erano:
- l'obiettivo della soluzione dei due stati è quello di consentire ad essi di vivere fianco al fianco;
- il vero obiettivo è quello di partire con due stati, ma poi agire in modo che si pervenga ad un unico stato palestinese.

Tristemente, la seconda opzione ha raccolto il 68% dei consensi. Solo una minoranza desidera vivere in pace e benessere, al fianco degli israeliani.

Il sospetto che l'opzione prospettata fosse vaga viene sgoberato subito da una seconda domanda:
- Israele ha il diritto inviolabile di esistere in quanto patria del popolo ebraico;
- nel tempo i palestinesi agiranno per riprendersi tutta la Palestina.
Il 91% ha concordato in un modo o nell'altro con questa seconda affermazione: la creazione di due stati è una soluzione temporanea per pervenire all'obiettivo finale, che è quello di distruggere lo stato di Israele e chi vi abita.

Questa conclusione, che spazza via l'eccesso di buonismo attorno alla questione israelo-palestinese, stride in contrasto ad un altro sondaggio, tenuto questa volta in Israele, fra la popolazione araba, che rappresenta il 20% della popolazione complessiva. Si è scritto più volte: gli arabi israeliani godono di diritti come in nessun altro stato del Medio Oriente, e nessuno si sognerebbe mai di chiedere la cittadinanza di un futuro stato palestinese. Uno studio dell'Israel Democracy Institute rivela come il 52.8% degli arabi residenti in Israele sia fiero della propria cittadinanza, e il 70% si fida del sistema giudiziario nazionale. Certo, non mancano dubbi e incomprensioni; ma il sentimento della popolazione araba di Israele si pone in netto contrasto con i risultati - tristi, ma prevedibili - del sondaggio condotto fra la popolazione araba che vive ad oriente del Giordano.

martedì 10 aprile 2012

Gli insediamenti nel West Bank sono legali

fonte: Elad Benari, Arutz Sheva


Meir Rosenne, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti e in Francia, ha affermato mercoledì che le comunità ebraiche in Giudea e Samaria sono legittime, secondo il diritto internazionale.
Rosenne ha commentato con Arutz Sheva la decisione della Corte Penale Internazionale con sede all'Aja, che ha respinto una istanza dell'Autorità Palestinese nei confronti di Israele, per presunti crimini di guerra durante l'operazione Piombo Fuso a Gaza nel 2009.
Il procuratore ha evidenziato che soltanto gli stati sovrani possono fare un esporto alla CPI, mentre l'AP è soltanto un osservatore in seno alle Nazioni Unite, e non un membro effettivo.
Rosenne ha notato come "l'AP non è uno stato. C'è l'Autorità Palestinese, e poi c'è Hamas che controlla Gaza, ma essi non sono definibili uno stato. Tutti i documenti ufficiali dell'ONU connessi alla Risoluzione 242 non citano mai l'aggettivo "Palestinese". E ha aggiunto che secondo il diritto internazionale le comunità ebraiche residenti in Giudea e Samaria hanno una piena legittimità giuridica: «i giuristi americani affermano che Israele è titolare di più diritti su questo territorio. Qualunque esperto di diritto che esamina questi documenti rileverà che non si fa alcuna menzione di concetti come il "West Bank" o i "territori occupati", ma casomai di Giudea e Samaria. E' questa la terminologia che compare nei documenti ufficiali dell'ONU».
Secondo la Convenzione di Ginevra tutte le comunità ebraiche sono legittime: «l'articolo 49 afferma che una potenza occupante non può forzare la propria popolazione ad occupare i territori contesi. E' quanto occorse durante la II Guerra Mondiale, quando la Germania costrinse con la forza i tedeschi a risiedere nella Polonia occupata. Ma nel nostro caso, Israele non ha mai occupato la Giudea e la Samaria: questa è un'area mai appartenuta ad alcun altro stato. L'occupazione giordana (fra il 1948 e il 1967, NdT) non è mai stata riconosciuta, al pari dell'occupazione egiziana della Striscia di Gaza. Il destino di queste aree dovrebbe risultare da negoziati fra le parti. I coloni non sono mai stati costretti ad entrare in questi territori, per cui agiscono nella piena legittimità».
Sempre secondo il diritto internazionale, i terroristi detenuti in Israele non devono essere considerati prigionieri di guerra: «la Convenzione di Ginevra afferma che un prigioniero di guerra è tale quando impiega manifestamente armi, indossa una uniforme e rispetta il diritto di guerra. I terroristi non mostrano apertamente le armi, non vestono uniformi e non rispettano certo il diritto di guerra quando ammazzano i bambini (o li usano come scudi umani, NdT)». Ciononostante, Israele comunque consente loro di vedere i propri avvocati, pur se terroristi.

lunedì 9 aprile 2012

Una (improbabile) prospettiva di pace


Abbas pubblicamente si propone come il leader "moderato" dei palestinesi - salvo intestare strade e piazze a criminali terroristi, e salvo stringere accordi con Hamas, la fazione terroristica rivale che governa Gaza e che dichiara di perseguire la distruzione del vicino stato di Israele. Ma nei fatti continua a mostrarsi tutt'altro che ben disposto verso la pace, malgrado i toni concilianti adottati in una intervista edulcorata concessa al Corriere della Sera, che sembrava scritta direttamente dal suo ufficio stampa.
E' noto che il presidente dell'Autorità Palestinese - embrione di un futuro stato nato dopo gli Accordi di Oslo, che hanno previsto un fiume di finanziamenti a favore di Ramallah, a patto che si abbandonasse la lotta armata e si raggiungesse un accordo con Gerusalemme - ha annunciato l'intenzione di inviare una missiva al primo ministro dello stato ebraico. La lettera contiene alcuni punti che dovrebbe riaprire il processo di pace, interrottosi da almeno due anni. Nel 2010 infatti Netanyahu concesse una moratoria di dieci mesi nella costruzione nei territori contesti nel West Bank, in cambio dell'impegno palestinese a tornare al tavolo dei negoziati, unica strada indicata dagli Accordi di Oslo. Spiacevolmente, la leadership palestinese ha ignorato questa disponibilità, pretendendo un rinnovo della moratoria a pochi giorni dall'esaurimento della pausa di dieci mesi. Un comportamento censurato da tutto il mondo desideroso di pace in Medio Oriente.
Adesso, il discusso leader palestinese, vertice di un governo ormai illegittimo (le elezioni in Cisgiordania non si tengono da diversi anni, soprattutto per il concreto timore di perdere il potere a favore delle fazioni rivali più estreme), rilancia, proponendo l'invio di quella che presto definiremo "lettera morta": la richiesta è quella di ritornare ai "confini" precedenti la Guerra dei Sei Giorni - che poi confini non sono: si tratta delle linee provvisorie armistiziali successive alla guerra scatenata dagli stati arabi nel 1948-49 dopo la proclamazione dello stato ebraico - di sospendere la costruzione nei territori conquistati nel 1967 dopo la guerra ancora una volta scatenata dalle nazioni arabe, e di abbandonare i quartieri orientali di Gerusalemme, consegnandoli ai palestinesi, per un qualche motivo che si fa fatica a comprendere: prima del 4 giugno 1967, infatti, questa zona era occupata dalla Giordania, che aggredì Israele nel 1948, occupando "Gerusalemme Est" per quasi vent'anni, e trasformando i luoghi sacri all'ebraismo praticamente in un pisciatoio.
La lettera sarà recapitata al primo ministro israeliano nelle prossime ore, da una delegazione che si recherà a Gerusalemme. Abu Mazen attenderà una risposta scritta da parte di Netanyahu, che non si farà attendere, il cui contenuto però è facilmente prevedibile: Gerusalemme è la capitale dello stato israeliano, è una e indivisibile; i confini scaturiti dalla Guerra dei Sei Giorni non possono essere modificati, pena l'annichilimento da parte degli stati circostanti che non vedono l'ora di scatenare un nuovo conflitto (l'afflusso di armi e munizioni da parte del bellicoso Iran non ha soluzione di continuità); i territori contesi possono essere oggetto di scambio, come si impegnò a fare il primo ministro Olmert - il quale arrivò a garantire la sovranità palestinese sul 100% dei Territori, ricevendone uno sdegnato rifiuto - ma non si può porre questo elemento come precondizione di una trattativa bilaterale. I trattati di pace sottoscritti prima con l'Egitto, e più di recente con la Giordania, sono stato il punto di arrivo di trattative, non di imposizioni unilaterali e di minacce.
Ci si chiede poi se l'accordo con i "palestinesi" riguardi soltanto il versante orientale del West Bank, o anche la Striscia di Gaza, controllata da Hamas, che si sta ben guardando dall'impegnarsi a partecipare ai negoziati di pace. I quali perciò risulterebbero certamente monchi e incompleti. Una trattativa finalizzata alla pace non può non tenere conto delle prospettive di sicurezza per le popolazioni interessate. Sarebbe l'ennesima occasione sprecata se, di fronte ad una risposta comprensibilmente prevedibile, Abu Mazen puntasse ancora una volta i piedi e decidesse di ripercorrere la fallimentare strada del riconoscimento unilaterale alle Nazioni Unite.