lunedì 9 aprile 2012

Una (improbabile) prospettiva di pace


Abbas pubblicamente si propone come il leader "moderato" dei palestinesi - salvo intestare strade e piazze a criminali terroristi, e salvo stringere accordi con Hamas, la fazione terroristica rivale che governa Gaza e che dichiara di perseguire la distruzione del vicino stato di Israele. Ma nei fatti continua a mostrarsi tutt'altro che ben disposto verso la pace, malgrado i toni concilianti adottati in una intervista edulcorata concessa al Corriere della Sera, che sembrava scritta direttamente dal suo ufficio stampa.
E' noto che il presidente dell'Autorità Palestinese - embrione di un futuro stato nato dopo gli Accordi di Oslo, che hanno previsto un fiume di finanziamenti a favore di Ramallah, a patto che si abbandonasse la lotta armata e si raggiungesse un accordo con Gerusalemme - ha annunciato l'intenzione di inviare una missiva al primo ministro dello stato ebraico. La lettera contiene alcuni punti che dovrebbe riaprire il processo di pace, interrottosi da almeno due anni. Nel 2010 infatti Netanyahu concesse una moratoria di dieci mesi nella costruzione nei territori contesti nel West Bank, in cambio dell'impegno palestinese a tornare al tavolo dei negoziati, unica strada indicata dagli Accordi di Oslo. Spiacevolmente, la leadership palestinese ha ignorato questa disponibilità, pretendendo un rinnovo della moratoria a pochi giorni dall'esaurimento della pausa di dieci mesi. Un comportamento censurato da tutto il mondo desideroso di pace in Medio Oriente.
Adesso, il discusso leader palestinese, vertice di un governo ormai illegittimo (le elezioni in Cisgiordania non si tengono da diversi anni, soprattutto per il concreto timore di perdere il potere a favore delle fazioni rivali più estreme), rilancia, proponendo l'invio di quella che presto definiremo "lettera morta": la richiesta è quella di ritornare ai "confini" precedenti la Guerra dei Sei Giorni - che poi confini non sono: si tratta delle linee provvisorie armistiziali successive alla guerra scatenata dagli stati arabi nel 1948-49 dopo la proclamazione dello stato ebraico - di sospendere la costruzione nei territori conquistati nel 1967 dopo la guerra ancora una volta scatenata dalle nazioni arabe, e di abbandonare i quartieri orientali di Gerusalemme, consegnandoli ai palestinesi, per un qualche motivo che si fa fatica a comprendere: prima del 4 giugno 1967, infatti, questa zona era occupata dalla Giordania, che aggredì Israele nel 1948, occupando "Gerusalemme Est" per quasi vent'anni, e trasformando i luoghi sacri all'ebraismo praticamente in un pisciatoio.
La lettera sarà recapitata al primo ministro israeliano nelle prossime ore, da una delegazione che si recherà a Gerusalemme. Abu Mazen attenderà una risposta scritta da parte di Netanyahu, che non si farà attendere, il cui contenuto però è facilmente prevedibile: Gerusalemme è la capitale dello stato israeliano, è una e indivisibile; i confini scaturiti dalla Guerra dei Sei Giorni non possono essere modificati, pena l'annichilimento da parte degli stati circostanti che non vedono l'ora di scatenare un nuovo conflitto (l'afflusso di armi e munizioni da parte del bellicoso Iran non ha soluzione di continuità); i territori contesi possono essere oggetto di scambio, come si impegnò a fare il primo ministro Olmert - il quale arrivò a garantire la sovranità palestinese sul 100% dei Territori, ricevendone uno sdegnato rifiuto - ma non si può porre questo elemento come precondizione di una trattativa bilaterale. I trattati di pace sottoscritti prima con l'Egitto, e più di recente con la Giordania, sono stato il punto di arrivo di trattative, non di imposizioni unilaterali e di minacce.
Ci si chiede poi se l'accordo con i "palestinesi" riguardi soltanto il versante orientale del West Bank, o anche la Striscia di Gaza, controllata da Hamas, che si sta ben guardando dall'impegnarsi a partecipare ai negoziati di pace. I quali perciò risulterebbero certamente monchi e incompleti. Una trattativa finalizzata alla pace non può non tenere conto delle prospettive di sicurezza per le popolazioni interessate. Sarebbe l'ennesima occasione sprecata se, di fronte ad una risposta comprensibilmente prevedibile, Abu Mazen puntasse ancora una volta i piedi e decidesse di ripercorrere la fallimentare strada del riconoscimento unilaterale alle Nazioni Unite.

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