Continuano a far discutere le prese di posizioni della leadership palestinese, del "ministro degli esteri" europeo Catherine Ashton e del primo ministro tedesco, contro l'attività edilizia nei sobborghi di Gerusalemme.
La capitale israeliana ha chiesto e ottenuto dal ministero competente l'autorizzazione per la costruzione di 1100 unità abitative nel sobborgo di Gilo. Evidentemente, come ogni città, Gerusalemme fa registrare un'attività edile in linea con la crescita della popolazione: dal 1967, da quando i quartieri orientali della città sono stati strappati all'occupazione giordana successiva alla guerra di aggressione del 1948, il municipio ha autorizzato la costruzione di nuovi alloggi. Da 44 anni, come in ogni città del mondo.
Ieri il vice ministro degli Esteri di Israele ha convocato i giornalisti internazionali sul cantiere dove saranno costruiti alloggi, negozi e altre attività commerciali, per evidenziare la assoluta normalità di un progetto che riguarda un quartiere a cinque minuti dal centro città. Casomai, si tratta di un'attività che si svolge in tutti gli altri quartieri della capitale israeliana, proprio in risposta alle legittime rimostranze della popolazione (ebraica, araba e cristiana) che recentemente ha manifestato per protestare contro la crescita delle quotazioni immobiliari prodotto di una scarsità di offerta.
Il timore è che la leadership palestinese colga questa situazione come pretesto per disdegnare l'invito del Quartetto a riprendere i negoziati con il governo israeliano, senza condizioni di sorta. E' il tempo di sedersi ad un tavolo, senza accampare pretesti poco credibili.
Non è una questione di territori. Lo dimostra il fatto che le proposte del governo Barak e del governo Olmert, arrivate a riconoscere la sovranità palestinese sul 100% dei territori "occupati" (o contesi) sono state rispedite al mittente senza alcuna motivazione che non fosse quella di rifiutare la pace. Da questo punto di vista, le dichiarazioni secondo cui il futuro stato palestinese sarà "jewsfree" francamente mettono i brividi, e ricordano simili propositi che pensavamo di aver seppellito sotto la tragedia dei totalitarismi nazifascisti del secolo scorso. Un proposito di pulizia etnica di stampo razzista, che stride enormemente in contrasto alla libertà di cui gode il 20% della popolazione israeliana di origine araba (non dimentichiamo che Israele è uno stato grande quanto la Puglia, attorniato da stati molti più grandi, popolati e meno tolleranti).
Nel frattempo Abbas Zaki, un esponente di spicco di Al Fatah (il partito di Abu Mazen) ha profetizzato in una intervista all'emittente Al Jazeera che se Israele si ritirerà da Gerusalemme, evacuando i suoi 650 mila abitanti, ciò rappresenterà la fine di Israele; e ha aggiunto: "inizialmente non sarà possibile raggiungere l'obiettivo più grande (la distruzione di Israele, NdR), e non è saggio dichiararlo. Non è politicamente accettabile sentir dire che vogliamo cancellare Israele. Meglio non rivelare queste cose al mondo: teniamocele per noi".
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