mercoledì 12 dicembre 2012

La “duplice lettura” del conflitto in Medio Oriente

di Alessandro Litta Modignani*

Il dibattito sulla “guerra infinita” che da quasi 65 anni insanguina il Medio Oriente assomiglia molto, specie in Europa, a un dialogo fra sordi; spesso degenera rapidamente in rissa e l’avvento di Facebook non ha certo contribuito a migliorare la situazione. Anche al netto di certi eccessi verbali, c’è qualcosa che sfugge e che rende letteralmente impossibile il confronto. Un errore di impostazione, a parere di chi scrive, che altera in premessa la visione delle cose e devia la discussione su un binario morto. Una svista lessicale che porta a un completo fraintendimento, storico e politico, della realtà.
Nel dibattito pubblico - sui giornali, in televisione, ovunque - quasi sempre si fa riferimento al conflitto “israelo-palestinese”. Questa definizione è completamente sbagliata, carica di conseguenze negative. A seconda che si chiami il conflitto “israelo-palestinese” oppure “arabo-israeliano”, infatti, cambiano completamente le prospettive, si utilizzano categorie diverse e si giunge a conclusioni opposte.

Gli assertori di ciascuna delle due definizioni citate si sentono, nel migliore dei casi, del tutto incompresi dagli altri; si dilungano in una serie interminabile di esempi, si intestardiscono in analisi inoppugnabili, si perdono in discussioni infinite. Più semplicemente, abitano su due pianeti diversi.

Questa guerra nasce nel 1948 con la proclamazione dello Stato di Israele. Si può contestare quanto si vuole l’arbitrarietà di questo fatto (ma tutti gli Stati nazionali nascono da fatti arbitrari); si può chiamarlo “indipendenza” oppure “nakba” ma, comunque lo si voglia giudicare, è un fatto altrettanto certo che in quello stesso giorno, il 15 maggio, Israele è entrato in guerra con cinque eserciti: Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq. Wikipedia definisce questa guerra “arabo-israeliana”: è già qualcosa. La seconda guerra mediorientale (detta “di Suez”, 1956) si svolse principalmente in Egitto. La terza, detta dei “Sei Giorni” (1967) vide coinvolti ufficialmente Egitto, Giordania e Siria; la quarta (del Kippur, 1973) Egitto e Siria; la quinta (1982) ebbe per teatro il solo Libano. Chi può definire, con onestà intellettuale, questo conflitto “israelo-palestinese”?
Conosco l’obiezione: oggi le cose sono in parte cambiate. Egitto e Giordania hanno firmato dei trattati di pace, con la Siria c’è una tregua armata che dura da quasi 40 anni. Ci sono state le due Intifada che effettivamente hanno posto con forza all’ordine del giorno una “questione palestinese”; poi le due offensive di Gaza. Basta questa nuova situazione a permettere oggi di definire il conflitto “israelo-palestinese”? Io credo di no, per tre motivi.

Il primo è che quella palestinese è palesemente una “guerra per procura”. Gli Stati arabi, trovandosi nella impossibilità di condurre una guerra aperta contro Israele, finanziano e armano fino ai denti le fazioni palestinesi, in particolare quelle terroristiche, allo scopo di alimentare una guerra endemica, fatta di attentati, lanci di razzi, incursioni di frontiera. Senza l’aiuto di vari Stati arabi e musulmani, questa attività sarebbe impossibile.
Il secondo motivo, molto significativo in questo senso, è la vicenda del Libano, dove opera la milizia di Hezbollah, un vero e proprio esercito privato (il “Partito di Dio”, appunto) forse più forte dell’esercito regolare. Questa milizia libanese è sciita (mentre i palestinesi sono sunniti) ed stata protagonista dello scontro con Israele nella seconda guerra del Libano (2006). Tutti sanno che Hezbollah è sostenuto, finanziato, armato e addestrato dalla Siria e soprattutto dall’Iran.
Appunto l’Iran costituisce il terzo motivo della mia riflessione. Questo grande Stato (1,6 milioni di km quadrati, 75 milioni di abitanti) non confina con Israele e non avanza alcun contenzioso territoriale. A ben vedere, non è neanche un paese arabo (la lingua ufficiale è il persiano) dunque anche la definizione di conflitto “arabo-israeliano” è sbagliata ma per difetto, dunque rafforza il mio ragionamento. Quando il piccolo Hitler di Teheran vaneggia di “un mondo senza sionismo”, si disinteressa completamente alla questione palestinese, anzi la osteggia, perché uno Stato palestinese dovrebbe giocoforza riconoscere l’odiata “Entità Sionista”. Se uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio vuole dotarsi di centrali nucleari, non è certo per il fabbisogno energetico, ma neanche perché ha a cuore la causa araba. Vuole semmai dominare il mondo arabo (infatti le monarchie del Golfo sono preoccupatissime) e magari passare sottobanco alla sua fidata milizia libanese l’arma per distruggere lo Stato di Israele con tutti i suoi abitanti.
In conclusione, è giusto riconoscere che la guerra in corso è fra Israele e una gran parte del mondo arabo-musulmano, che lo accerchia e non ne tollera l’esistenza. E’ sbagliato e fuorviante, invece, chiamare questa conflitto “israelo-palestinese”. E’ per questo che la maggioranza dell’opinione pubblica europea non ne capisce le ragioni intime.
Israele è un piccolo Stato di 20mila km quadrati (la superficie della Sicilia) assediato da decine di Stati e centinaia di milioni di esaltati nazionalisti e fanatici fondamentalisti che ne reclamano la cancellazione. Ma Israele è forte, sa difendersi, non si lascia distruggere, così continua la guerra infinita, alimentata da un odio invincibile. E i palestinesi ne pagano il prezzo più amaro.

* Alessandro Litta Modignani (1954) è giornalista. È iscritto e milita nel Partito Radicale ininterrottamente dal 1974. Nella Legislatura 2000-2005 è stato capogruppo per i Radicali-Lista Bonino nel Consiglio Regionale della Lombardia. È attualmente membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani.
Cura il blog Restiamo Liberali.

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